Fashion

I paninari sono stati uno spartiacque tra un prima e un dopo nella concezione della moda giovanile. I Panoz sono, infatti, responsabili per l’introduzione e la diffusione in Italia di un approccio di rottura al vestiario, decisamente casual e colorato, che è coinciso con l’avvento di uno streetwear tutto italiano diverso da quelli già visti in diverse parti del mondo. A riprova di questo basterebbe guardare gli outfit con cui nella Milano degli anni ‘80 i Pony Express - rider ante litteram - eseguivano le consegne, notando un fil rouge con l’estetica paninara. Una prova, dunque, della capacità della scena in questione nell’elevare capi sportivi e workwear a veri e propri fenomeni di culto, riuscendo lì dove tante altre sottoculture avevano fallito: creare un’estetica che fosse propria e identitaria, unica ma soprattutto capace di lasciare il segno. 

Se i mods inglesi dei primi anni ‘60 sono stati la prima sottocultura a introdurre nella youth culture un’attenzione particolare all’abbigliamento e ai suoi dettagli esclusivi, i paninari - pur abbracciando tutt’altra estetica - hanno esteso la passione per una moda elitaria ai concetti di brand e luxury, anticipando così di decenni due elementi cardine dello streetwear dell’ultimo decennio e della ‘hype culture’. Così se nel 1964 gli High Numbers - primissima incarnazione degli Who - offrivano ai loro ascoltatori un dettagliatissimo prontuario della moda modernista con il singolo Zoot Suit / I’m The Face, a distanza di vent’anni i Pet Shop Boys esportano nel mondo il concetto di Paninaro nella loro omonima hit. La canzone contribuisce a diffondere all’estero la nuova estetica dei giovani milanesi.

Nel corso di un decennio il mondo paninaro è stato solcato da molteplici stili e correnti interne, come quella Yankee o quella Preppy, nonché da varie declinazioni del panoz, dal più borghese e pettinato Gallo al più aggressivo e sportivo Randa, passando fino ai crossover con altre scene. Proprio per questo, a rendere ancora più affascinante ed enigmatico il movimento paninaro è stata la capacità dei suoi adepti di introdurre elementi estetici totalmente nuovi e spiazzanti. Una volta raggiunto il suo apice di popolarità a cavallo tra il 1986 ed il 1987, la moda paninara ha infatti continuato a evolvere, facendosi influenzare e a sua volta influenzando la cultura pop circostante fino a fine decennio, quando l’appeal per questa estetica scema in corrispondenza di un nuovo ricambio generazionale.

Nella seconda metà degli ‘80, ad esempio, i paninari arrivarono ad adottare elementi provenienti da altre estetiche, come nel caso del chiodo di pelle o del ciuffo, tipici dei Rockabilly. Discorso diverso invece per i Ray-Ban Olympian, l’iconica montatura indossata da Peter Fonda in Easy Rider, che dopo essere diventati parte del look paninaro passarono anche per le mani dei Mod grazie alla loro silhouette mid-century in uno dei tanti punti di contatto con l’estetica del movimento nato in Inghilterra grazie a brand come gli Who e i Jam. Con i Mod, nelle province italiane, i paninari condividevano anche i giacconi paramilitari Big Smith - detti “Canadesi” -, spesso utilizzati come alternativa ai parka non sempre facilmente reperibili. Anche le Dr. Martens entrano a far parte del guardaroba panozzo grazie all’influenza del duo inglese Bros. I gusti musicali, dove dominavano Duran Duran e Spandau Ballet, addirittura, erano in parte condivisi anche con New Waver e New Romantic, così come la moda del mullet. Per assurdo, i paninari - storicamente associati alla cultura maschilista e conservatrice della Milano da Bere - avevano elevato a loro idoli artisti, come Boy George, che incarnavano una filosofia Queer, espletata anche attraverso un’estetica androgina e una sessualità all’epoca reputata non convenzionale.

I NEW WAVER, I NEW ROMANTIC E LA MODA DEL MULLET.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, uno dei simboli più rappresentativi delle evoluzioni stilistiche fu Jovanotti che, soprattutto grazie alla grande attenzione per i trend della cultura giovanile, sapeva tanto farsi ispirare dallo street style quanto influenzare i paninari. È proprio con la diradazione dalle scene di Jovanotti che fa seguito alla sua partenza per il servizio di leva nell’88 che, simbolicamente, tra 1990 e 1991 si chiude il lungo decennio paninaro con un implicito “rompete le righe”. Per molti della vecchia generazione era arrivato il momento di dedicarsi a famiglia e lavoro, mentre i più giovani, in alcuni casi, si lasciarono sedurre da nuovi fenomeni come il rap e la cultura skate, in cui confluirono anche grazie alla presenza di brand amati dai paninari come Vans e O’Neil.

Parte imprescindibile dell’estetica paninara erano gli outfit, fatti di brand e item essenziali nella “divisa” panozzo. Su tutti il Moncler modello Grenoble, introdotto nella scena dai giovani della medio-alta borghesia, un esempio di come la moda giovanile fosse spesso il risultato del legame tra una categoria sociale e l’ambiente ad essa circostante. «Prima mettevamo il Dolomite, poi visto che ce l’avevano tutti, anche i tamarroni, siamo passati al gallo Moncler, arancione tassativo,» ricorda un membro della scena. La maggior parte del guardaroba, però, parlava orgogliosamente italiano. Negli anni in cui l’alta moda dominava su Milano, le manifatture Made in Italy sapevano imporsi con originalità e ricerca sui materiali nell’ambito del casualwear. Ecco allora l’appeal delle creazioni di Massimo Osti per Stone Island, C.P. Company e Bonneville, così come le intuizioni di Elio Fiorucci, le felpe e le t-shirt sgargianti della Best Company, i capi sportivi di Virtus Palestre, per l’inverno il knitwear di Loro Piana, Boggi, Marina Yachting o Foxhound. 

Allo stesso tempo, la fascinazione per l’America, contribuì all’affermazione del cosiddetto stile “Yankee”. Un'influenza riscontrabile sia nella nomenclatura di prodotti del tutto italiani, come il denim di Americanino, che nella scelta dei capi: dagli stivali Durango al giubbotto da aviatore Avirex B15 e G1 - indossato da Tom Cruise in Top Gun. Sull’entusiasmo per i piumini smanicabili, sono da ricordare anche il costosissimo montone Timberland e i gilet con rinforzo in pelle sul torace Schott, El Charro o Lee. Addirittura Fay si fece ispirare dalle divise dei pompieri newyorkesi nel dare vita ad uno dei suoi capi più significativi, il Quattro Ganci. Il risultato è l’affermazione dello stile Preppy, una declinazione street e autoctona del modo in cui i giovani benestanti americani degli anni ‘80 - tra deck shoes e maglioncini Ralph Lauren - avevano a loro volta reinterpretato lo stile Ivy League dei campus dei loro genitori. Uno stile rilassato e raffinato che era particolarmente gettonato tra le ‘sfitty’, le ragazze paninare.

DAGLI STIVALI DURANGO AL GIUBBOTTO DA AVIATORE AVIREX B15 E G1.

Ecco allora che il classico scarponcino Timberland Chukka - spesso chiamato “Cucca” con maccheronica ingenuità -, l’altrettanto americaneggiante Red Wing, o i cowboy boots Durango si alternavano alle più sportive Nike Wimbledon, all’elegante robustezza delle Paraboot o delle Sebago Koala, e a icone Preppy come mocassini da vela Timberland o Sebago, e sneaker in canvas della Vans o Sperry. Nonostante fumetti e riviste veicolassero l’estetica paninara anche nelle province più remote, in un’Italia ancora lontana dallo scoprire l’e-commerce e le catene fast fashion la moda della scena era fatta anche di variazioni locali sui brand adottati a Milano. Ai più classici jeans Lee, Levi’s o ai dispendiosi Armani - rigorosamente a vita alta con fit mommy o a palloncino - si potevano, dunque, alternare i Pop 84, i Chambers con le loro toppe rimovibili, o in provincia di Cuneo i Rica Lewis, che tanto nella tab sul passante che nei modelli guardavano ai ben più noti (e quasi omonimi) competitor statunitensi. 

A Genova - dove i paninari prendevano il nome di Albarini, dal quartiere benestante di Albaro Alta da cui generalmente provenivano - venivano adottati capi mutuati dal mondo della navigazione e degli sport acquatici. Tra questi, gli anorak Slam in alternativa a quelli Henry Lloyd, ma anche Marina Yachting, Polar e Sundek. A Bologna era diffuso il brand Ocean Star, mentre in provincia di Prato ai classici orologi Winchester si preferivano i Flipper subacquei. Nella zona di Imola, invece, era Wampum, con un logo a W ad imitazione della U del più celebre Uniform a vestire molti paninari. Spesso, nei centri più piccoli, era lo stock di un singolo negozio a plasmare l’estetica dei paninari autoctoni, come nel caso dello storico Villamarena a Sestri Levante. 

E ancora marchi caduti nel dimenticatoio come Navigation D’Afrique, Frank Scozzese, Chipie, e Controvento, ma anche brand celebri quali Sisley, Lacoste e Murphy & Nye che però trovavano riscontro solo in alcune aree geografiche piuttosto che in altre. Certo non sempre si passava l’outfit check dei paninari più elitari e intransigenti. È il caso delle Lumberjack usate al posto delle Timberland, o dei piumini Faciba a imitazione di quelli Moncler. Il desiderio di apparire nonostante l’assenza di capitale, dunque, spingeva anche ad assumersi il rischio di farsi bollare come cinghios, ovvero tamarri.

A fare la differenza, si sa, sono i dettagli, qualcosa di cui i paninari erano maestri. A porre una linea netta di demarcazione tra un Gallo di Dio e un China non era solo il logo su un piumino, ma anche gli accessori. Le eleganti calze argyle della Burlington con i loro pin metallico da ostentare risvoltando i jeans, i guanti da moto in pelle gialla di El Charro così come le sue imponenti fibbie dal sapore Western, al pari degli altrettanto opulenti orologi Winchester, erano dei must have essenziali nell’assegnare street cred ai giovani, tanto che il mercato ne proponeva versioni budget o contraffatte. Da decalogo paninaro, l’orologio andava portato sopra il polsino, in un gesto di ostensione che accomuna i paninari all’avvocato Gianni Agnelli, che aveva lanciato il trend già a partire dai decenni precedenti. Si può addirittura sostenere che il patron FIAT, con il suo modo di vestire eccentrico fosse stato un paninaro ante-litteram, ispiratore di un’iconografia e di una forma mentis adottata anche dagli Yuppie della Milano da Bere - come testimoniato dalle frequenti citazioni nell’omonimo film con Massimo Boldi e Ezio Greggio. 

A sorprendere, sono anche le sfumature DIY che caratterizzavano una scena certo non troppo incline a queste pratiche maggiormente legate ad altre sottoculture. Ne è testimonianza l’icona del Paperino arrabbiato disegnato sulle cosce dei Levi’s 501. La sua origine, che inconsapevolmente riprende quella con cui nei campus americani gli studenti adornavano i propri capi con riferimenti alla loro classe o confraternita, viene attribuita a Massimo, un paninaro stanco del fatto che il brand Naj Oleari realizzasse le sue toppe con personaggi dei fumetti pensando solo al solo pubblico femminile.