
Da Valentino e Balenciaga il tempo è un disco rotto Gli anni passano ma Alessandro Michele e Demna sono gli stessi
«Time is a flat circle» diceva Rust Chole in True Detective – una frase che rievoca Nietzsche e l’eterno ritorno dell’uguale che, senza voler discendere in eccessive spiegazioni, sostiene che il tempo sia ciclico e che ciascuno di noi sia costretto a ripetere le stesse azioni ancora e ancora, senza scelta o scampo. Una sensazione che è tornata ieri alla Paris Fashion Week, quando nello stesso giorno hanno sfilato collezioni firmate da Demna e da Alessandro Michele, uno sempre con Balenciaga e l’altro che adesso è da Valentino, che ci hanno riportato ai tempi in cui entrambi i designer erano i campioni di Kering – una parabola ascendente culminata nell’aprile del 2021 con la famosa collaborazione tra Gucci e Balenciaga. Proprio in quell’occasione si ebbe modo di notare come due designer così diversi, concentrati su mondi così diversi, possedessero lo stesso approccio post-moderno, uno sguardo che però Demna rivolgeva al mondo della working class di oggi e di domani, in una feroce parodia del lusso e che invece Michele gettava in un passato romantico e alto-borghese, così out of touch da poter essere estetizzato e reinterpretato come qualcosa di nuovo. Ieri il ciclo si è ripetuto – non solo a causa della giustapposizione delle collezioni dei due designer in calendario, ma anche a causa della riproposizione di questi approcci. Non molto, in breve, pareva cambiato. Al punto in cui è lecito domandarsi quanto effettivamente siamo cambiati noi come pubblico nel confrontarci con collezioni di Demna e di Michele che hanno mantenuto integralmente il proprio punto di vista sulle cose, sul mondo e ovviamente sulla propria moda e se, per i due designer, sia arrivato il momento di aggiungere qualcosa di nuovo a una formula che si ripete come un disco rotto.
All’estremo opposto dello spettro della “normalità” c’era Alessandro Michele con Valentino. E se, come spesso accade, il concept del bagno pubblico come teatro di intimità performativa, spazio liminale dove ricordi di Lynch e di Kubrick si incrociano, prometteva bene – la collezione-fiume che Michele ha presentato ci ha in effetti dato l’impressione che il tempo fosse un bloccato in una spirale. È stato già ampiamente chiarito da diversi critici online che anche i pezzi più sopra le righe visti ieri allo show erano citazioni dell’enorme archivio di Valentino e che dunque Michele non sta rifacendo Gucci. Non di meno, questa consapevolezza e ogni approfondimento culturale possibile riescono a negare ciò che sta davanti ai nostri occhi? Le show notes firmate da Michele spendono tantissimo fiato sul significato del set dello show per cui, sembra di intendere, gli ottanta look di cui non si parla nemmeno fossero un mero pretesto. Era forse una collezione più misurata per Michele che, a differenza del passato, si è attenuto ai codici altoborghesi senza mescolare incongruamente gli “abiti della contessa” a short da bicicletta color fluo, harness sadomaso, sneaker da running e via dicendo. Il buono non mancava: la collaborazione con Vans era indovinata, i pantaloni con taglio bootcut molto à-la-page, le combo di pelliccia e pantaloni sartoriali, oggi come allora, restituiscono bene lo stile contemporaneo di molti giovani che indossano i nobili vestiti del passato insieme al proprio guardaroba casual. Ma anche a fronte di singoli prodotti e look molto validi (Michele è bravo nel suo lavoro, sa rivitalizzare le vendite e il team di Valentino è da sempre una potenza) non si può onestamente dire che questa collezione sarebbe stata diversa cinque o sette anni fa né che lo sarà la collezione che Michele ci presenterà a un anno o due da oggi.
È normale questo senso di dejà-vu? È possibile creare il senso di pura e semplice meraviglia evocando sofismi, ragionamenti filosofici e prelevando concetti dalla critica artistica? Perché nel discutere di molti show di designer veterani e spesso amatissimi ci troviamo a cercare maniere di intellettualizzare, rendendolo soddisfacente, qualcosa che non ci sta eccitando più di tanto? Più che designer del post-moderno, sia Demna che Michele sembrano designer della post-verità nella valutazione dei quali le convinzioni personali, gli appelli emotivi, le immagini pre-formate giocano un ruolo più importante di quello che stiamo effettivamente vedendo in passerella. Questo non cancella l’impressione di essere già passati per questo punto, di esserci già trovati a discutere delle stesse cose, a guardare gli stessi vestiti, a inseguire significati ulteriori perché purtroppo il semplice aspetto dei vestiti ha messo di essere commento e ornamento a se stesso e adesso ha bisogno di spiegazioni, chiarimenti e attenuanti che diano un senso a ciò che vediamo. Eppure la scritta è sul muro (anche quello del bagno), la verità palese e i vestiti nuovi dell'imperatore non esistono. Il valore dell’arte e della creatività si crea quando il creativo in questione è anche il più feroce critico di se stesso e decide non di ignorare in modo ipocrita i giudizi e i consigli che vengono da se stesso e dalla sua platea ma di fare di meglio, di superare il passato senza ripeterlo. Nascondersi dietro il pigro relativismo del “è bello ciò che piace”, il fatalismo del "ma lui è un designer così" che finisce per distruggere il senso di tutto e dietro la deludente logica del “però vende” significa forse porre la barra dei requisiti troppo in basso. I tempi si ripetono solo quando lasciamo che si ripetano, dopo tutto, nella storia come nella moda.