
"Mamma mia”: I Måneskin e lo strano rapporto con lo stereotipo italiano Una band che di "italiano" ha molto poco ma basa parte del suo successo sull'italianità
«Why so hot? / Cause I’m italiano»
Il verso che sentiremo di più di Mamma Mia - il nuovo singolo dei Måneskin, che ha già totalizzato 5 milioni di streaming solo su Spotify - racchiude perfettamente il rapporto che la band romana ha con la cultura e l’italianità. Il tema è interessante e complesso per varie ragioni: in primis è che i Måneskin sono la prima band italiana che negli ultimi vent’anni è stata proiettata in pochissimo tempo verso un successo internazionale, la seconda è che l’estetica glam rock dei Måneskin - nonostante le collaborazioni con brand italiani come Gucci e Etro - ha poco a che fare con l’immagine italiana (il che però trigghera la domanda: che estetica segue una band italiana che punta al successo internazionale? I Måneskin sono oggi gli unici che ce la stanno facendo, quindi).
Eppure la prima canzone dopo lo straordinario successo dell’Eurovisione e numeri clamorosi è un singolo cantato in inglese, presentato in club di Berlino e con il titolo che suggerisce un uso strumentale dell’italianità, un ottimo marketing che nonostante la reference ironica agli Abba è poca cosa. Non dico che i Måneskin abbiano l’obbligo o il dovere di raccontare l’italianità, sostengo solo che sia clamorosamente interessante avere il loro punto di vista su un tema - la cultura italiana contemporanea - che oggi dopo una pandemia e un sistema culturale sconvolto economicamente sta facendo fatica a generare nuove idee e immaginari.
«Volevamo anche prendere in giro gli stereotipi sugli italiani, perché noi ci sentiamo molto lontani da quel tipo di rappresentazione»
Ha spiegato in un’intervista a Cosmopolitan Vittoria de Angelis confermando che la canzone non è una celebrazione dell’italianità, quanto un esercizio ironico. Il testo e la musica - scritte entrambe interamente dalla band romana - sono figlie dirette della vittoria all’Eurovision, competizione musicale esteticamente veramente strana che però è riuscita a rispolverare quel senso di partigianeria nazionale anche in Italia. Così la vittoria dei Måneskin è finita nella celebrazione della “grande estate italiana” insieme alla vittoria dell’Europeo, l’oro sui 100 metri di Marcell Jacobs, rendendo la band in Italia un orgoglio nazionale da difendere e salvaguardare, come la polemica contro la stampa francese che sosteneva che “i nostri ragazzi” avessero sniffato cocaina in diretta tv.
Prima con X-Factor e poi la vittoria al Sanremo della pandemia - uno dei più seguiti e discussi degli ultimi - avevano introdotto l’estetica della band al pubblico mainstream italiano: look e attitudine che si rifanno al glam che parte da Mick Jagger e Bowie passando sulle passerelle degli ambigui rocker di Hedi Slimane con i loro stivali col tacco e i loro outfit un po’ languidi (ricordiamo il lungimirante slogan del 2013 «The Saint Laurent boy is a girl»). Un tipo di rock che visivamente e performativamente in Italia venne portato da Renato Zero, Donatella Rettore e Loredana Bertè – i cui sforzi rimasero in ogni caso isolati nel più ampio contesto del panorama musicale italiano e sempre indebitati a tradizioni del tutto estere.
Per riprendere una metafora calcistica, i Måneskin non devono essere caricati del peso del “giovane italiano di talento che salverà la nazionale”, hanno già la loro missione e la stanno vivendo in brillantemente. Quello che su cui il successo dei Måneskin può far riflettere su quale forma e aspetto avrà la cultura italiana contemporanea nei prossimi anni.
Da una parte ci sono industrie culturali indipendenti - musica, teatro e performance - bloccate da due anni di immobilismo che faranno fatica a ripartire per mancanza di soldi e spazi, dall’altra invece una scena creativa di successo che è però proiettata su una visione ed un’estetica globale. è un tema enorme e complesso che coinvolge necessariamente la comunicazione digitale e i sistemi di produzioni culturali (come si fanno oggi i soldi nella musica?), che però lascia una domanda: ci sarà ancora spazio per creare una cultura che riflette tradizioni e territorio? Proabilmente sì, il come sfugge ancora.