
Gli uomini secondo Alexander McQueen La storia dimenticata del menswear creato dall'enfant terrible della moda
«L’abbigliamento maschile è una questione di sottigliezza. Una questione di stile e buon gusto», disse una volta Lee McQueen. Parole francamente troppo vaghe per rappresentare una poetica intera. Se il designer britannico voleva che le persone si spaventassero delle donne che vestiva, non si può dire lo stesso degli uomini – categoria per cui voleva piuttosto «demolire le regole e mantenere la tradizione» e che, almeno per le collezioni che vanno dal ’96 al ’98, in cui si trovava una minoranza di look maschili, erano quasi un’estensione dei ben più arditi concept femminili. E anche quando McQueen lanciò ufficialmente una linea di menswear vera e propria nel 2004, installandone la residenza alla Milan Fashion Week, l’attenzione di tutti restò fissa alle collezioni femminili. Fu dopo che il brand raggiunse una stazza considerevole, e dopo la morte di McQueen stesso nel febbraio 2010, che le due linee, maschile e femminile, si assestarono su una più comune e commerciale lingua franca – prima di allora, le collezioni “canoniche” di McQueen sono ancora oggi considerate solo femminili. Eppure, McQueen si era fatto le ossa tra i più esigenti sarti di Savile Row, Anderson & Sheppard e Gieves & Hawkes, che producevano addirittura i completi per gli uomini della famiglia reale (una volta McQueen raccontò di avere cucito la frase “I am a cunt” nella fodera di una giacca dell’attuale Re Carlo III) per poi fare il modellista di costumi teatrali nella sartoria Angels & Bermans. Ed è chiaro che, se l’abbigliamento femminile era per lui un campo di sperimentazione artistica senza precedenti oltre che una forma di escapismo, quello maschile rappresentava un progetto più direttamente biografico, ancorato alla realtà, soggetto come tutto alla «fragilità del romanticismo».
Come si diceva, però, molto di questo vasto patrimonio di menswear oggi è stato, se non dimenticato, almeno offuscato dalla magnitudine dello spettacolo portato in passerella dalle collezioni femminili. Subito dopo la morte di McQueen, Sarah Burton compose una collezione ispirata ai costumi storici inglesi che ancora portava una traccia dell’estetica a cui il designer aveva abituato il pubblico. Ma era scomparsa la volontà di scioccare, così come quel senso di spudorata irriverenza che, all’indomani dell’acquisizione del Gucci Group (che poi diventerà Kering), lo portò a rispondere a chi si chiedeva se sarebbe diventato più commerciale: «Non sono mai diventato più commerciale, sono sempre lo stesso. Niente mi influenza». Certo, McQueen stesso credeva nella mescolanza di alto e basso, dopo tutto fu sempre lui a lanciare McQ, la linea di diffusione del brand che esiste ancora oggi. Non di meno, non è difficile credere che un designer tanto opposto all’establishment e all’ipocrisia del marketing avrebbe reagito di fronte alla iper-commercializzazione del suo menswear e del suo brand che, tra l’altro, finì pure per produrre il celebre abito nuziale di Kate Middleton per le nozze reali britanniche – basti pensare che in vita McQueen, uno scozzese per cui l’Inghilterra aveva letteralmente violentato la sua patria, aveva rifiutato un invito formale della regina d’Inghilterra a una cena di stato con l’imperatore del Giappone. Un classico caso di «O muori da eroe, o vivi abbastanza a lungo da diventare il cattivo».