
La lunga redenzione di Ed Hardy Da pioniere della tattoo art a involontaria icona del douche-fashion
Se oggi la tattoo art è così diffusa e fa parte dell’estetica di innumerevoli subculture, Ed Hardy è una delle persone che dobbiamo ringraziare. Praticamente tutti, associano il nome di Hardy a quel merch iper-colorato, graficamente caotico e allegramente tamarro che dominò il canone del moda Y2K insieme al suo brand “fratellastro” Von Dutch – ma un fatto che spesso passa inosservato è che l’artista Ed Hardy ebbe poco a che fare con quell’abbigliamento, la cui reputazione di douche-fashion offuscò il grande contribuito che proprio Hardy aveva dato alla diffusione della tattoo art. L’artista, oggi 76enne, ha provato ad aggiustare la narrativa che lo circonda già nel 2013 con la sua autobiografia Wear Your Dreams: My Life in Tattoos ma il suo vero tentativo di redimere la propria immagine è giunto solo ora, con l’uscita di una nuova collezione collaborativa con il cult brand inglese Unknown, la cui intenzione è quella di cancellare l’associazione del brand al mondo trash cavalcando allo stesso tempo la nostalgia per la moda dei primi anni 2000 che lo fece diventare un’icona della sua epoca.
Come si diceva, Ed Hardy iniziò la sua carriera nel mondo della tattoo art: da giovanissimo lavorava in maniera del tutto amatoriale ma, dopo aver frequentato il San Francisco Art Institute e l’incontro con il leggendario tatuatore "Sailor Jerry" Collins nel 1969, Hardy abbandonò il suo progetto di studiare a Yale e andò invece in Giappone, diventando il protegé di Horihide, uno dei tatuatori preferiti della yakuza – un periodo che formò la sua iconografia sospesa a metà fra l’arte giapponese e l’immaginario dei biker californiani. Nel 1977, Hardy tornava a San Francisco e apriva il suo studio, Tattoo City, contribuendo a trasformare la tattoo art nello strumento di creatività e auto-espressione che è diventato oggi, separandolo dalle sue origini nel mondo del crimine, dei motociclisti e dei marinai. La sua carriera prese il volo da lì, culminando nel ’95 con un profilo stilato dal The New York Times che fu uno dei primi giornali a domandarsi se i tatuaggi potessero essere considerati una disciplina artistica a sè stante. Proprio in un giornale, anni dopo, due rappresentati dello streetwear brand Ku USA videro i suoi lavori e proposero una collaborazione a Hardy che nel 2003 firmò i suoi primi prodotti di abbigliamento decorati dai propri artwork.
Con l’esplosione dello streetwear post-2016, però, la percezione del brand cambiò: Audigier morì per il cancro nel 2015, e nel frattempo la nostalgia della moda Y2K fece riemergere l’apprezzamento per le grafiche eccessive e il branding scatenato di Ed Hardy i cui diritti erano stati acquistati da Iconix Brand Group nel 2011. Persino Highsnobiety creò un parallelismo tra l’iper-decorativismo del Gucci di Alessandro Michele e i lavori di Hardy (pensate alle tigri e ai draghi, ai jeans ricamati e al cuoio decorato da immagini ispirate al tattoo). Nel frattempo brand come Rose in Good Faith e Anti Social Social Club avviarono collaborazioni con il brand, venne lanciata la collezione custom-made “By Appointment Only” insieme a collaborazioni con lo sneaker brand Starwalk e Unknown. Non si può certo dire che il brand si stia avviando verso un ritorno in grande stile, le sue collaborazioni sono rimaste troppo under the radar anche se non sono sfuggite agli appassionati del brand, ma è indicativo che da Ed Hardy stiano giungendo segnali di vita – non è escluso che il mondo dell’archivio inizi a recuperare dai repertori dei primi 2000 le sue t-shirt, le sue hoodie e soprattutto i suoi celebri trucker hat logati.