COS è in crisi? Tre motivi: un debole approccio al digitale, stagnazione creativa e mancanza di diversity

Quando venne fondato nel 2007, COS avrebbe dovuto essere il campione della scuderia del gruppo H&M, già proprietario di brand come  Weekday, Monki, & Other Stories e Arket. La sua collocazione su mercato era intermedia: sulla falsariga del Céline di Phoebe Philo e di Isabel Marant, proponeva abiti eleganti e minimali, dall’estetica molto svedese, dotati di silhouette architettoniche e prodotti con materiali di qualità a prezzi accessibili. Il suo posizionamento era un gradino più in alto di H&M (che era, sia in senso letterale che figurato, molto più cheap) e uno più in basso dei fashion brand veri e propri, possedendo un price point notevolmente inferiore. L’idea di offrire basic elevati a un pubblico più fashion savy funzionò bene all’inizio: nei primi dieci anni di vita, le vendite di COS avevano toccato il miliardo e costituivano il 5% della revenue totale del gruppo H&M. Ma, come si può leggere in un lungo reportage di Business of Fashion, le cose stavano per cambiare.

Sebbene l'estetica del brand sia rimasta molto coerente nel corso degli anni, a essa non è stato accompagnato un sistema di valori di riferimento adeguatamente trasmesso tramite i social media. L'estetica di COS è rimasta invariata e sostanzialmente fine a se stessa - chiusa nel monotono stereotipo dell'essenziale design svedese. Il risultato è stato uno sbiadimento della brand identity. Senza contare come il principale appeal del fast fashion sia la sua rapida imitazione dei trend del lusso, riproponendoli a prezzi democratici. È un modello poco sostenibile ma che funziona e appaga la volubilità della clientela – un modello che COS non ha seguito negli anni, smettendo di essere al passo coi tempi e cadendo nella ripetitività, specialmente in un’epoca in cui un’estetica definita e strutturata è diventata sempre più importante per il cliente che vuole identificarsi nei valori e nella narrativa di un brand. 

La questione della diversity

In una fashion industry sempre più caratterizzata da considerazioni etiche e da argomenti come l’inclusivity e la diversity culturale, la strategia di COS per affrontare la questione è apparsa antiquata. Gli impiegati del brand intervistati da Business of Fashion in forma anonima, hanno parlato di una cultura aziendale decisamente poco inclusiva in cui «il casting di talenti diversificati rimane ancora una battaglia». La mancanza di diversity si ritroverebbe anche nel design dei vestiti, colpevoli secondo alcuni di non essere pensati per ogni body type. A questo, si assomma anche la cattiva reputazione del gruppo H&M per quanto riguarda lo sfruttamento dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo – cattiva reputazione iniziata con il crollo del Rana Plaza di Savar, il più grave incidente mortale della storia avvenuto in fabbrica tessile, che produceva abiti per il gruppo. 

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We Must Do Better As a global brand we have a role to play in the Black Lives Matter movement. It is necessary to take tangible actions that lead to meaningful and lasting change, and we start by looking inwards. At COS we are committed to implementing a long-term plan to make our brand more inclusive and diverse for our customers, colleagues and community. To be transparent, we know from feedback received that we must do better. We will not tolerate any form of racism, discrimination or injustice in our business. We are taking the following steps as a starting point: We will listen and learn – a forum will be created to give all employees across the brand an opportunity to speak out. We will be accountable for change – an internal working group will be set up with immediate effect. This group will suggest and initiate further actions we can take both internally and externally, and we will ensure we uphold these commitments. We will continue to educate ourselves – implicit bias training received by our leadership team will be rolled out across the organisation. We will represent the diversity we value – a greater representation is needed at every level of our brand. We will review and clarify our recruitment, development and retention processes, as well as the partners and collaborators we work with. We are at the start of a new journey to becoming the business we want to be.

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Queste mancanze sono attribuibili, secondo l’indagine di Business of Fashion, alla monoculturalità del suo management, inadatta a fronteggiare un mercato sempre più multiculturale. La stessa indagine riferisce che sono state numerose, nel corso degli anni, le lamentele degli impiegati a proposito di una corporate culture chiusa, nepotistica e segnata da ambigui episodi di bullismo e abuso di potere prontamente minimizzati o messi a tacere dal brand.

Cosa sta facendo COS per cambiare?

Alla fine dello scorso gennaio, il ruolo di Managing Director del brand è passato a Lea Rytz Goldman che è succeduta a Marie Honda, rimasta nella sua posizione per gli ultimi otto anni. Il ruolo precedentemente ricoperto da Goldman era la gestione di Arket, uno dei brand più giovani nel portafoglio del gruppo H&M oltre che uno dei più promettenti. 

Goldman ha già cominciato ad apportare dei cambiamenti salutari per l’azienda, come ad esempio un workshop interno per ridefinire la brand identity, potenziando l’e-commerce e istituendo un forum aperto in cui gli impiegati possano esporre i problemi da loro incontrati all’interno dell’ambiente di lavoro. 

Rimane comunque ancora troppo presto per sapere se il cambio di leadership si tradurrà in un’effettivo miglioramento della performance del brand – ma COS non è comunque un'azienda moribonda: le sue performance, sebbene poco soddisfacenti rispetto al passato, rimangono forti; il brand possiede un’identità forte e potenziale commerciale oltre che l’appoggio finanziario e infrastrutturale di uno dei conglomerati industriali più estesi al mondo. Prima di tutto, Goldman intende creare una nuova cultura aziendale basata sulla fiducia e orientata verso un cambiamento in positivo:

«Come nuova direttrice, riconosco che la creazione di un ambiente più aperto e di una cultura inclusiva richiede tempo. E io, insieme agli altri dirigenti, devo instaurare un clima di fiducia che permetta a chiunque di esprimersi liberamente».