
Allen Iverson e l'evoluzione dello streetwear Da Hampton all'introduzione del ''dress code'', perchè AI è stato così influente per l'NBA di oggi
Il 6 giugno del 2001, a poche ore dal suo ventiseiesimo compleanno, Allen Iverson si presenta nella sala stampa dello Staples Center per la conferenza post gara-1 delle NBA Finals. Ne ha appena messi 48 ai Los Angeles Lakers, in uno degli upset più clamorosi della storia delle Finali, con tanto di giocata iconica che contribuirà a far entrare Tyronn Lue nella storia dalla parta sbagliata, indipendentemente dal risultato di quella serie: «Tutto ciò che conta è lasciare tutto quello che hai sul campo: è l’unico modo che hai per tornare negli spogliatoi e riuscire a guardarti allo specchio senza rimpianti». Indossa un paio di occhiali da sole che non avrebbe sfigurato in Matrix, una maglia dei Philadelphia Eagles di almeno due taglie più grandi, una bandana nera con il suo logo - lo stesso che compare sulle sue signature shoes by Reebok -, un vistoso crocifisso d’argento che fa pendant con il diamante al lobo destro: uno stile inconfondibile per quello che, in quel momento, è l’atleta più famoso del mondo.
E poco importa che, per sua stessa ammissione, il diretto interessato abbia confessato che non si vestirebbe mai come i suoi epigoni attuali – «Ad ognuno il suo e lo rispetto. Ma, a questo punto, un certo tipo di dress code sarebbe necessario anche per alcuni di questi ragazzi: sono scandalosi»: l’influenza di Iverson non è nell’adesione ai nuovi canoni di eleganza riferibili a un contesto NBA, ma nell’aver spinto le nuove generazione a reinventare e reinventarsi alla ricerca di una libertà espressiva e di un proprio modo di essere off the court che in qualche modo rappresentasse la varietà di stili di gioco che caratterizza questa fase storica di “The League”. Perché, in fondo, le signature moves non sono solo quelle sul parquet.