
Come si vestono gli "Ultras"? Lo abbiamo chiesto ad Antonella Mignogna, costumista del film di Francesco Lettieri disponibile su Netflix
La cultura Ultras è una composizione di valori, idee, riti e immagini e suoni.
In molti sostengono che si tratti dell'ultima sottocultura contemporanea sopravvissuta all'evoluzione della cultura mainstream, del calcio e dello sport.
Come ogni sottocultura l'aspetto visivo è uno degli elementi fondamentali, l'immagine dell'ultras passa anche dalla moda: dallo stile casual inglese che segue il motto "vestiti bene e comportati male" fino alle nuove declinazioni street, la moda delle curve è forse sottovalutata nel suo stile e originalità.
Per capire che cosa oggi simboleggia la moda del tifo italiano, nss sports ha intervistato Antonella Mignogna, che ha curato tutti i costumi di ''Ultras'', il primo film di Francesco Lettieri, uscito su Netflix lo scorso 20 marzo su Netflix.
In Ultras ci sono tre differenti generazioni di tifosi e modi di intendere la moda.
A chi ti sei ispirata per il look di ognuno dei tre gruppi?
Sin dall’inizio con Francesco nell’immaginare le identità dei vari gruppi ci siamo detti di provare a rendere immediatamente dal punto di vista visivo le differenze dei tre diversi insiemi e anche dei singoli personaggi che partecipavano alla storia. Quando abbiamo iniziato a pensare agli Apache, Francesco è venuto da me con una fanzine degli ultràs del Napoli dell’inizio degli anni ’90. Avevamo immagini di muri di gente vestita con questo denim dal lavaggio super chiaro e in quel momento, nella nostra mente, è nato Sandro che (per renderlo più aggressivo) ha fatto suo quello smanicato partorito dal modello di una jacket vintage, introvabile, del periodo di cui sono da sempre stata innamorata. Durante le mie ricerche visive, attraverso le quasi introvabili foto dell’epoca, è venuto fuori che a quei tempi, nelle curve dei tifosi del Napoli (che mi sono sembrati una sorta di paninari ripuliti e molto più onesti) non era così rispettato un codice di abbigliamento che solo in seguito è diventato (anche se forse in Europa e in particolare in Inghilterra già lo era) proprio del mondo ultras. Mi sono resa conto che ognuna delle persone che vedevo in quelle immagini, a suo modo rappresentava se stesso, era un personaggio in sé che usciva fuori dall’omogeneità che è una delle peculiarità della cultura casual. Ed è così che abbiamo rappresentato la compagine iniziale degli apache, "i diffidati". Ognuno dei personaggi del gruppo dei fondatori aveva le proprie caratteristiche che comunicava in maniera abbastanza evidente, essendo un film dalla grande coralità, la propria personalità.
Lo stadio e la curva invece li ho frequentati solo a Napoli ed in un unico periodo della mia vita: quello in cui il Napoli giocava in serie C (io frequentavo il liceo) e andavo in curva A con due amici quasi tutte le domeniche. C’erano davvero pochissimi irriducibili intorno a me, ma tanto vero cuore. Le immagini di quel periodo mi son rimaste negli occhi e ne ho nascosto i dettagli nell’immaginario che ho dato ai vari gruppi da quello dei diffidati arrivando fino alle figurazioni e le comparse delle scene di massa degli scontri e dello stadio.
Quali film o riviste hai usato come riferimento?
Tantissime fanzine e ricerche di rare immagini e spezzoni di video dei gruppi in trasferta e allo stadio, anche e sopratutto di privati. Oltre E.A.M - Estranei alla massa che ho visto per la prima volta in quel periodo sotto consiglio di Fra (Francesco Lettieri, n.d.r). Per scelta e per definire l’approccio artistico a questo lavoro, ho scelto di non rivedere, prima di iniziare la progettazione e le successive scelte per il film, i film illustri del genere. Ho preferito guardare più documentari possibili sul web anche per capire l’appeal internazionale dei look e per avere un approccio più realistico che potevo sulla cultura e le differenze di oggi rispetto al passato. Voglio citare tra tutti la serie “The real football factories” che ho trovato davvero molto interessante. Tra le letture consigliatemi e che consiglio a mia volta per capire il pensiero e la genesi della filosofia ultras, meritano i libri: “I ribelli degli stadi” di Pierluigi Spagnoli e, in senso più ampio sul conflitto giovanile che si manifesta nelle subculture, “La sindrome di Andy Capp” di Valerio Marchi. Visivamente, uno dei miei preferiti del periodo è stato “Skins” di Gavin Watson del 2008.
Uno dei cardini della sottocultura ultras é l’anticonformismo. Come si concilia questo valore con il fatto che esteticamente gli ultras hanno uno stile molto omogeneo tra squadre e paesi diversi?
Credo che una prima risposta sia da ricercare nel desiderio di riconoscibilità immediata e nella manifestazione dell’appartenenza al gruppo attestata attraverso lo stile unico all’esterno, anche se questa caratteristica appartiene a molti se non tutti i movimenti sottoculturali, soprattutto quelli giovanili. La seconda variabile si può identificare nella decodifica vera e propria di quello che è oggi lo stile ultras partendo dalla sua genesi. Sono convinta che il casual, per propria definizione di nascita, voglia l’omologazione allo stile della classe media della società per meglio identificarsi in essa. Su questa base, lo stile è poi diventato “divisa” tanto da permettere, nello stesso tempo, sia la spersonalizzazione che l’identificazione di uno status: la “dichiarazione” di essere sia parte intrinseca della società che manifestazione di un movimento che naviga ai bordi di essa. E si è tradotto nel modo per definire sé stessi in maniera discreta. Partendo da questo concetto il look patteggiato è poi diventato parte del loro universo visivo e concettuale con conseguente diffusione internazionale.