
Il logo c’è ma non si vede Logo sì? Logo no? Perché non entrambi?
Che la moda sia ciclica è cosa nota. E il continuo mutare di stili coinvolge anche i loghi. Dieci anni fa, il mondo della moda li aveva riesplorati in tutta la loro esuberanza, trasformandoli a volte in stampe all-over nella cui superficialità spesso si esauriva tutto il design. “Logomania” fu la parola usata all’epoca per parlare di questa tendenza, trainata da Virgil Abloh e dalla sua rilettura post-moderna del logo, da Alessandro Michele da Gucci e da Demna da Balenciaga e soprattutto da Gosha Rubchinsky, la cui carriera venne poi giustamente stroncata ma che di fatto contribuì a sdoganare questo specifico tipo di pacchianeria. Ad ogni modo, per un certo periodo la logomania fu ovunque – così ovunque che presto stancò. Dopo il lockdown, la comunità della moda emerse cambiata, desiderosa di comfort ma soprattutto desiderosa di creatività, pregio materiale e innovazione. Iniziò l’era dei loghi con piazzamenti inattesi, vacanti o inesistenti, del lusso materiale che doveva parlare da sé – un’era forse rinfrescante ma alquanto noiosa. E proprio ora, al volgere di un nuovo periodo, i loghi paiono tornati ma in una forma diversa, semi-visibile, evidente ma discreta insieme. È l’era della quiet logomania. Tra i vari look che si potrebbero prendere ad esempio dalle sfilate recenti, potremmo indicare il più emblematico in un abito di pelle verde lime di Gucci, visto all’ultima fashion week, dove il logo era inserito a sbalzo soltanto sotto l’orlo superiore del vestito: non si vede da lontano ma è la prima cosa che si vede da vicino. Altrove, quasi ogni look dell’ultimo show femminile di Dior presentava un logo minuscolo in bianco stampato sul fianco destro; da Loewe invece abbondano le tag di pelle intrecciata che nemmeno indicano il nome del brand piazzate in diversi punti strategici di giacche e maglioni, spesso dietro il collo che è anche dove Prada ha iniziato a piazzare degli eloquenti triangolini, o dei ritagli triangolari, che sono loghi per chiunque sappia che lo sono.
La presenza di questi loghi, dunque, mantiene la funzione originaria di elevare design ordinari, giustificarne il prezzo e di segnalare lo status. La loro diffusione ha anche a che fare con l’ascesa della dupe culture, e dunque dei prodotti che simulano l’estetica di altri griffati senza falsificarne il brand; con il rapporto un po’ morboso che la moderna clientela della moda ha sviluppato con l’aspetto visuale del prodotto, quello cioè comunicabile attraverso i social media; e soprattutto con la scommessa che i brand stanno facendo su ciò che, citando uno studio del 2010, il WSJ indica come “segnali orizzontali” ovvero quegli elementi di riconoscimento che fanno comunicare tra loro persone dello stesso ceto sociale – quelli “verticali” come i mega-loghi o i monogram servono a comunicare status dal basso verso l’alto. Curiosamente, questo tipo di branding, specialmente sotto forma di piccolo logo sul petto, è associato principalmente con Polo Ralph Lauren che solo settimana scorsa ha pubblicato dei risultati finanziari molto forti (1,7 miliardi di dollari in vendite solo nel secondo trimestre dell’anno) e che in effetti rappresenta un caso unico di brand che parla a diversi segmenti di mercato attraverso diverse linee senza affatto diluire il proprio appeal. Insomma, se un capo è firmato, magari non si deve proprio vedere, ma lo si deve assolutamente capire – per tutto il resto c’è Uniqlo.