
Un’ossessione che non riesce a estinguersi, intervista a An Vandevorst Su quel che resta della creatività, sull’avvento dei social media e della moda che cambia
Una distesa di letti ospedalieri in ferro battuto e giovani ragazze addormentate in calze velate, gonne sagomate, cardigan sui toni pastello, che spiccano in contrasto con il candore delle lenzuola. Ciascuna di loro si desta dal sonno e sfila, tranne una, che nell’attesa del suo turno si è addormentata davvero. È il 1999, An Vandevorst e Filip Arickx, che si sono conosciuti pochi anni prima sui banchi della Royal Academy of Fine Arts di Anversa, presentano la loro seconda collezione in una sfilata-performance destinata a rimanere nella storia, tanto per il suo gusto naif che per la sua potenza narrativa. Nonostante siano solo agli inizi, le ispirazioni che li accompagneranno per i prossimi vent’anni ci sono già tutte: Joseph Beuys, la croce rossa, la religione, i cavalli e gli accessori per l'equitazione, i rivetti, la lingerie, le uniformi, gli accenni al fetish. Un’amalgama di riferimenti che ritorna, come un tamburo, come un’ossessione che non riesce a estinguersi, ma in forma sempre nuova, lasciando spazio alla meraviglia. Oggi il brand non esiste più, per scelta stessa dei suoi founder, ma nell’anonimato delle campagne dai set spogli, nell’automazione del quiet luxury e dei feed instagram, la moda tutta è più che mai nostalgica non tanto di un'epoca storica ben definita, ma di quel modus operandi peculiare per cui un capo è in grado di trasportarci in un universo, farsi portavoce di un sistema estetico e valoriale, trascendere la banalità del reale. I codici estetici si muovevano in bilico tra maschile e femminile, sacro e profano, costruzione e decostruzione, i retaggi della scuola belga: un mix inequiparabile e irriproducibile che adesso si rimpiange, tra le macerie di in un settore che vira invece pericolosamente verso l’anonimato. Di ossessione e performance, di quel che resta della creatività e di come tutelarla, dell’avvento dei social media e del settore che cambia, oltre che del suo ruolo di advisor presso il Polimoda, abbiamo parlato con An Vandevost durante una conversazione durata più di un’ora.
E come pensa che i social media si siano inseriti in questa “perdita dell’innocenza”?
All'epoca, quando abbiamo iniziato, spendevamo molti soldi per un addetto stampa e per organizzare sfilate a Parigi che mostrassero al mondo il nostro lavoro. Il grande vantaggio dei social media è che si è visibili in un secondo. Possono essere un ottimo strumento e si possono controllare: si padroneggia cosa si posta, a che ritmo, in modo abbastanza semplice. Un altro aspetto che è cambiato nel corso degli anni è il rapporto tra il brand e il consumatore finale, una fiducia cieca che si è decisamente persa. Il cliente vedeva nei negozi i pochi pezzi che i buyer acquistavano per lui, non aveva idea che dietro quei capi ci fosse una collezione 20 volte più grande perchè non aveva gli strumenti per accedere all'intera collezione. Ora, tramite i social media, tutti hanno accesso alle sfilate, letteralmente tutti, e ci si limita a cercare su Google un capo, cliccare e dire: “Lo voglio”. Ma capita che il negozio non abbia comprato quel determinato capo, perché non può comprarlo, perché non c'è budget per acquistare l'intera collezione. Quindi gli store sono stressati perché non sanno più cosa comprare. Poi c’è la questione dei designer, che è un altro grosso problema per l’intero settore. Capita che designer senior facciano fatica a trovare una collocazione perché i marchi assumono designer junior o celebrità per creare le collezioni. Ma ogni marchio ha bisogno di un lavoro d’insieme, per tradurre la storia di uno show in abiti consistenti. Oggi abbiamo la percezione che la moda sia solo intrattenimento, ma non è così, la moda sono i vestiti.
Da più di tre anni affianca gli studenti del Polimoda di Firenze con la sua attività di advisor. Cosa le ha significato per lei interagire con giovani studenti provenienti da tutto il mondo e come li affianca nelle loro creazioni?
Alla fine dell'anno scolastico, propongo nuove idee o modifiche per l'anno successivo (basandomi sulle mie osservazioni dell'anno appena concluso e sui feedback ricevuti dagli insegnanti) per rendere i corsi forti, coerenti e mantenerli aggiornati. Insieme a Massimiliano (Giornetti) e ai coordinatori, creiamo i nuovi programmi. Quando inizia il nuovo anno scolastico, spiego a tutto il team di insegnanti la visione dei corsi e quali cambiamenti sono stati apportati. Da novembre, poi, intervengo quando i programmi sono già in corso per dare il mio feedback e avere una visione d'insieme. È bello lavorare e creare in un ambiente creativo come il Polimoda, perché è come muoversi in una sorta di bolla. Ho provato la stessa sensazione durante il mio periodo in Accademia. Era il mio rifugio sicuro. Hai tutto il tempo e lo spazio per esplorare te stesso e puoi imparare molto dagli altri studenti e dagli insegnanti. È uno scambio continuo.
Ai suoi studenti che cosa consiglia?
Agli studenti consiglio di non fare copia e incolla, di trovare la propria voce. Come dicevo prima, la moda è un linguaggio e bisogna imparare a parlarlo, a esprimersi, a capire come si arriva a una forma, come la forma e il corpo interagiscono tra loro. Bisogna assorbire, assorbire, assorbire. E soprattutto, bisogna imparare a vedere le opportunità, specie quelle che già attraversano il nostro cammino.