
Indossereste mai un logo lì sotto? Anche gli uomini potranno dire «I miei occhi sono qua su»
«Bisogna mettere il logo dove la gente guarda», disse una volta Tom Ford in un’intervista, rivelando che i suoi jeans recavano un quasi invisibile monogramma TF cucito sulla patta. Uno di quei micro-dettagli molto “Fordiani”, per così dire, in cui discrezione e insolenza si mescolano – dopotutto è stato il designer del Texas a consacrare nella moda il principio “Sex Sells”. Alla stessa maniera una chiusura di lacci intrecciati chiude la patta dei pantaloni di Ludovic de Saint Sernin (che ha incluso un crotch logo nella sua SS22) ed è già diventata una delle sue firme più riconoscibili insieme alla vita molto ma molto bassa dei pantaloni stessi. Ma se la piccola cucitura sui jeans di Tom Ford è ciò che nel gergo di Internet definiremmo un easter egg, un dettaglio a sorpresa che si vede se lo si cerca, la storia dei loghi piazzati sui punti più sensibili del corpo umano non è dominata dallo stesso senso di sottigliezza. Anzi. Secondo Vogue, che ha di recente parlato della sopravvivenza dei crotch logos nella moda di oggi, in principio fu Nigo a sbattere il logo di A Bathing Ape sul davanti dei suoi pantaloni nel 2002 – la stessa epoca, anno più, anno meno, in cui i loghi di Evisu e Juicy Couture apparivano sul derrière di jeans e pantaloni sportivi. L’obiettivo di questo collocamento non era esattamente la raffinatezza e dunque non sorprende che in poco meno di un decennio questi loghi si diffusero nella frangia più impertinente dello streetwear dedicato a giovani e giovanissimi la cui divisa include sempre un pantalone della tuta o un mega-jeans di qualche tipo. Ma come hanno fatto questi loghi così strategicamente piazzati a sopravvivere indenni al decennio dello streetwear che sarebbe seguito?
Si potrebbe affermare, in effetti, che il boom dello streetwear, portando l’abbigliamento sportivo a un mercato sempre più di massa, ha forse sanitizzato lo streetwear stesso, aumentando i loghi ma provando a rendere i singoli capi relativamente più bon ton. Tanto che di quell’epoca, ormai lontana, gli unici crotch logo che si ricordino sono quelli di Pyrex e Boy London. Ma in realtà se ne trovavano anche altrove: in una delle prime collezioni di Riccardo Tisci per Givenchy, ad esempio, la stella che sarebbe poi diventata uno dei loghi ufficiosi del brand (tanto somigliante al logo dei jeans di Nigo indossati per anni da Pharrell) si trovava già nella sua posizione strategica ma fuori dalle sfilate il brand avrebbe prodotto pantaloni della tuta con il vero logo che sono in vendita ancora oggi; anni dopo, nella primissima collezione di Off-White, ad esempio, così come nella SS14 di Hood by Air.
Lo stile, per farla breve, esiste al di fuori dello streetwear più vistoso nella misura in cui un certo brand frequenta il mondo Y2K che tanto ha influenzato collezioni passate e presenti negli ultimi anni. Guardando il tutto dalla prospettiva di chi ha visto brand andare e venire nel loro ciclo eterno, si potrebbe dire che soltanto nei casi come quello di Corteiz il crotch logo possederà una ragion d’essere, e cioè in quei casi in cui la sua presenza sia supportata da un tipo di credibilità culturale assai elevata. Anche se non si può negare che negli ultimi tempi l’ossessione per la biancheria intima logata, che si tratti dei boxer finto-usati di Willy Chevarria, degli short shorts di Gucci, della suggestiva tasca frontale di Coperni o dell’underwear a vista di Miu Miu, la moda sembra essersi appassionata per le aree anatomiche al sud dell’Equatore.