
Quando Alexander McQueen era il direttore creativo di Givenchy E il rispetto era una questione di creatività
Nel corso della sua carriera, Alexander McQueen ha avuto più di un impero. Un brand omonimo, i cui codici estetici e narrativi continuano a essere profondamente legati al suo vissuto unico; una maison dall'eredità storico-culturale ingombrante, che alimenta ancora le aspettative dell’intero sistema moda per come lo conosciamo oggi; e la direzione creativa di Givenchy sotto il conglomerato di LVMH capeggiato da Monsieur Arnault. Un impiego che, forse, dovremmo più correttamente definire come un’adozione. Siamo negli stessi anni in cui, volendo delimitare un minimo di contesto storico, Rei Kawakubo fa sfilare la controversa collezione “Body Meets Dress, Dress Meets Body”, Martin Margiela presenta una delle sue collezioni più concettuali, ispirata ai manichini d’atelier Stockman, Nicolas Ghesquière prende le redini di Balenciaga, Marc Jacobs di Louis Vuitton.
@form.community Alexander McQueen Interview on Fashion Television (1997) In the captivating interview on Fashion Television by Jeanne Beker, Alexander McQueen reflects on the state of fashion following his Givenchy debut in 1997. Lee shares a thought-provoking perspective on the industry, stating that he does not see clothes as inherently important, viewing them simply as garments rather than objects of veneration. McQueen challenges the seriousness with which the fashion industry often regards clothing, emphasizing the need for a more balanced and nuanced approach tied to his sexuality and lived experience. Shop now at FORM.SPACE
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É il 1996: McQueen si è da poco laureato alla Central St Martins di Londra, l’accademia da cui proviene John Galliano, in carica come direttore creativo di Givenchy proprio fino a quell’anno. McQueen ha già maturato due esperienze lavorative, oltre ad aver già lanciato il suo brand nel 1992. Nel 1986, dopo aver visto un servizio in tv sulla mancanza di apprendisti da Savile Row, decide di rivolgersi direttamente ai sarti reali e ottiene un lavoro; qualche anno dopo è a Milano, dove lavora come modellista per il designer Romeo Gigli - «Alexander McQueen me lo sono trovato davanti una mattina in Corso Como», racconta il designer italiano. «Lo presi sotto la mia ala protettrice. Un giorno gli feci fare una giacca da uomo. Gliela feci rifare 4, 5 volte. All'ultima prova, staccai la fodera e dentro al capo, trovai che aveva scritto con un grosso pennarello nero “Fuck you Romeo”» - Aveva 27 anni quando divenne direttore creativo di Givenchy. «Uno come lui, che veniva da una famiglia della classe operaia, che era noto per le sue creazioni pazze, iconoclastiche, era stato scelto da una delle più prestigiose maison parigine: tutti gli inglesi celebrarono l’evento come se avessero vinto la Coppa del mondo» racconta in un'intervista Ian Bonhôte, uno dei registi del documentario incentrato sulla vita del designer uscito nel 2020.
Spostandosi nel campo del pret à porter, è con la collezione FW99 che McQueen dà forma e sostanza a quella che è passata alla storia come “Cyborg Couture”: borchie Swarovski computerizzate, pattern di microchip, abiti fatti di circuiti e led in collaborazione con lo Studio Van der Graaf alimentano le batterie del nuovo millennio alle porte. «Non era una sfilata di moda, era arte performativa» si legge su Vogue in riferimento alla collezione SS99 Ready-to-Wear, quella sedimentata nella memoria collettiva di tutti per il blitz dei robot che, armati di sola vernice, imbrattano il corpo della modella Shalom Harlow inerme in un abito di pizzo sangallo senza spalline, stretto sul busto da una cintura di pelle. In una delle sue ultime collezioni Couture per Givenchy, la FW99, McQueen concepisce una sorta di mostra d’arte fatta di manichini in vetroresina illuminati solo da riflettori - prende ispirazione dal un dipinto del XIX secolo di Paul Delaroche che raffigurava l’esecuzione di Lady Jane Gray, una pronipote di Enrico VIII. Nel 2001, quando la liason volge al termine, McQueen ha già stretto un accordo commerciale con il Gruppo Gucci, che acquisisce una quota di maggioranza del 51% del suo brand. Così, l’hooligan della moda può continuare ad amare la moda a modo suo.