
Come si diventa curatori di moda Intervista a Valerie Steele
Nel documentario Catwalk (1994), che insegue la modella Christy Turlington per la durata di un Fashion Month, quando ad André Leon Talley viene domandato se la moda è arte il giornalista risponde, secco: «Assolutamente no. La moda è duro lavoro, non è apparenza e basta». Che gli abiti possano essere considerati un’opera meritevole di essere appesa in un museo per essere ammirata è un argomento che ha polarizzato gli osservatori della storia dell’arte per decenni. Oggi, però, l’interità del pubblico riconosce nelle creazioni più maestose conservate nei musei del costume e della moda o anche negli archivi dei collezionisti vero valore artistico, tanto da gremire spazi come il V&A di Londra, che detiene la più grande collezione di moda al mondo, e il MET di New York con un vero e proprio senso di «fame per la moda». Così la chiama Valerie Steele, pioniera dello studio della storia del costume, curatrice e direttrice del Museo del Fashion Institute of Technology che nel corso di una lunga carriera ha saputo osservare e influenzare i cambiamenti che ha subito il ruolo del fashion curator. Se entrare a lavorare nel settore può sembrare già di per sé una sfida complicata, per chi non ha le giuste connessioni o supporti, diventare un curatore di moda è una sfida ancora più ardua, aggravata sia dal senso di esclusività che avviluppa il mondo dell’arte, sia da quello a cui cerca di rimanere aggrappato la fashion industry. Alla domanda “Come si diventa curatori di moda?” Valerie Steele risponde, per riassumere, che tocca rimboccarsi le maniche.
L’ultimo tema che affrontiamo insieme a Valerie Steele è il valore della storia della moda in relazione alla cultura della cancel culture, a pochi giorni dall’uscita del documentario su John Galliano, High & Low, Anche in questo caso, studiare il passato torna utile. «In un mondo in cui le cose tendono ad essere molto polarizzate, penso che sia necessario capire il tipo di pressioni a cui erano sottoposte le persone. Il business era feroce, ricordo di aver sentito la registrazione di Galliano: era assolutamente orribile e spregevole, ma era anche chiaro, sotto molti aspetti, che si trattava di una persona molto, molto malata». Nella visione completamente comprensiva e attenta di Steele, l’arte si può separare dall’artista, perché così come ascoltiamo ancora Wagner o appreziamo i Picasso, possiamo ancora riconoscere l’incanto e la ricchezza delle creazioni che Galliano realizzava in quegli anni di terribile perdizione. Era proprio una collezione dell’ex direttore creativo di Dior quella a cui si riferiva André Leon Talley nel documentario dedicato a Turlington, la SS94 di Galliano che raccontava Anna Karenina di Tolstoy con estrema poesia e drammaticità. «Una definizione: il master technician del ventunesimo secolo», aveva annunciato l’allora direttore artistico di Vogue, a presagire il riconoscimento che avrebbe ricevuto il creativo trent’anni dopo. Perché la moda è arte, specialmente quando si colora di sentimenti forti come la necessità di riscatto.