La sartoria espressionista della Paris Fashion Week Giacche e pantaloni diventano veicolo di emozione

Quando, durante e dopo il lockdown, tutti credevano che saremmo rimasti in tuta per sempre, l’idea di un ritorno alla silhouette sartoriale pareva tanto difficile quanto necessario. La sartoria, con tutta la cultura che la circonda e da cui deriva, pareva quasi contraria ai tempi: la sua formalità richiamava un mondo del lavoro da cui ci si voleva distanziare e la sua eteronormatività pareva ormai obsoleta. Eppure, negli anni successivi al biennio della pandemia, la sartoria è tornata – il suo richiamo all’ordine, i suoi valori di classicità ne hanno fatto un frame di riferimento creativo su cui (in alcuni casi letteralmente) ricamare nuove idee e anche un appiglio a cui aggrapparsi in un mondo in cui pare regnare il caos. Ieri, a Parigi, abbiamo notato un nuovo schema: tre brand di culto, tre collezioni, tre diversi concetti interpretativi della medesima disciplina sartoriale. I loro show sono stati anche uno di seguito all’altro – il primo The Row a mezzogiorno, seguito da Undercover e poi da Dries Van Noten. Tutti e tre i brand hanno portato in passerella la loro idea di una sartoria che potremmo definire espressionista, in cui cioè gli stessi elementi della cultura sartoriale sono stati letti secondo tre ottiche soggettive che ne hanno distorto alcuni aspetti per creare reazioni insieme estetiche ed emotive

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The Row Resort 2024
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The Row Resort 2024
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The Row Resort 2024
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The Row Resort 2024
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The Row Resort 2024
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The Row Resort 2024
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The Row Resort 2024
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The Row Resort 2024
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The Row Resort 2024
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The Row Resort 2024
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Undercover FW23
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Undercover FW23
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Undercover FW23
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Undercover FW23
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Undercover FW23
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Undercover FW23
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Undercover FW23
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Undercover FW23
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Dries Van Noten FW23
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Dries Van Noten FW23
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Dries Van Noten FW23
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Dries Van Noten FW23
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Dries Van Noten FW23
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Dries Van Noten FW23
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Dries Van Noten FW23

Conclusi questi primi due show, alle tre è stata la volta di Dries Van Noten, che ha sfilato al Le Dôme de Paris. Ora, Van Noten è tra i più riveriti maestri della scuola belga (ma quale designer belga o legato alla scuola di Anversa non lo è?) che produce delle hit anno dopo anno. I suoi show non scioccano perché non vogliono scioccare, la tecnica è grandiosa, stampe e colori senza pari – e quest’anno la sua fantasia dalle simpatie avant-garde è stata applicata a molti classici della sartoria dentro una collezione il cui concept era l’intimità, la sovrapposizione di materiali forti e impalpabili, la delicatezza di ricami dorati che parevano preziose riparazioni e rammendi su pezzi classici. C’erano giacche a doppio petto di velluto color ruggine, baveri e vite dei pantaloni sfrangiati, cappotti pesantissimi che di baveri erano privi, rigidi tailleur la cui giacca era indossata su un top che pareva una fodera rivoltata – con tutta la loro sottigliezza, la loro non trasparente comprensibilità, questi abiti sembravano amati e familiari, come se fossero stati recuperati e indossati dopo molto tempo senza aver perso nulla della propria bellezza. Ogni dettaglio fuori posto era messo lì ad arte, pienamente visibile solo per chi lo indossa. L’idea era quella di una sartoria che, invece di proteggere come un’armatura, o di farsi veicolo di espressioni e rimandi edgy, trova un rapporto stranamente intimo con chi la indossa – un sentimento non rivoluzionario ma che scorreva libero come il jazz di Lander Gyselinck che animava la venue.