
I rave, la moda, la controcultura Come il clubbing selvaggio ha fatto innamorare i designer
La moda è a corto di subculture a cui ispirarsi. Dopo aver prosciugato il grunge, il punk, il mondo dello skate e del surf, la cultura mod, gli outfit Regency, il minimalismo e adesso il Y2K, i vocabolari estetici del passato possono dichiararsi esauriti. Rimane soltanto il presente, con i suoi e-boy, la basicness programmata dei tiktoker e la sua completa assenza di autentiche subculture giovanili - con una notevole eccezione: il clubbing. Se esiste un’attività o una scena che polarizza interessi e discussioni, che evidenzia gli screzi tra una generazione e l’altra, che attira l’attenzione delle giovani generazioni, è il clubbing in tutte le sue forme - dai controversi rave che attirano masse oceaniche di giovani, suscitando scandalo e riprovazione, e ispirano l’immaginario di innumerevoli brand, da Diesel, a Prada, a Balenciaga, alle scene techno che diventano sinonimo di community, liberazione e inclusione, oltre che di edonismo.
Nel frattempo, a Berlino, dopo la caduta del Muro, i giovani del lato Est della città iniziarono a organizzare feste illegali nelle centrali elettriche abbandonate, nei magazzini, nelle stazioni sotterranee, nei bunker di cui pullulava la città suonando musiche aggressive, dai bassi ancora più duri della techno che giungeva dal ventre di Detroit. Nel 1990 l’americano Frankie Bones insieme ad Adam X portarono la cultura dei rave a Brooklyn, in una città divisa, segregata e terrorizzata dall’AIDS e da tassi di omicidi altissimi, i cui giovani cercavano un senso comunitario e uno sfogo, sotto l’insegna del motto PLUM (The Peace, Love & Unity Movement) creando uno spazio sicuro e privo di discriminazioni. Più avanti a Peace, Love e Unity, si unì anche Respect, facendo nascere lo slogan PLUR che ancora rappresenta la base filosofica della rave culture delle origini ma che, oggi, è andata perduta sommersa da incidenti tragici, casi di molestie sessuali e dalla commodification del rave appiattitosi nell’abuso di droghe o nella superficialità della moda.
She’s on another level pic.twitter.com/JOftviqng4
— Rave Moments (@Rave_Moments) November 7, 2022
Creando per innumerevoli giovani un mondo utopico, dove i traumi non sanati degli anni ’80 e gli spettri dei ’90 sparivano sotto ondate di bassi e di MDMA, la cultura dei rave dilagava ormai ovunque in Europa, giungendo al suo apice proprio mentre l’outfit dei raver iniziavano a evolversi verso una nuova dimensione. Con le suggestioni cyberpunk e le ansie futuristiche ispirate dalla nascita del Web, dagli incombenti anni 2000 e dalla leggenda del Millennium Bug, gli outfit dei raver iniziarono a riflettere un futuro utopistico e ipercromatico. Apparvero i visori e famosi wrap-around glasses, la tecnologia diventata accessorio, i colori neon passarono dall’abbigliamento alle capigliature che si decoravano di punte, di tagli alieni, mescolati a tute adidas, personaggi dei cartoni animati, peluche variopinti, grafiche tie-dye, glitter. Al richiamo di un’infanzia filtrata attraverso la lente dell’ecstasy si mescolava un senso di libertà e di edonismo che sfociava nella bizzarra kandi culture, innamorata dei colori e dei valori del pacifismo e dell’amore universale: bikini fluorescenti mescolati ad altissimi stivali pelosi, ciucci luminosi, fili del telefono usati come collane e gioielli di plastica, tute in stile Barbarella, make-up e parrucche erano ovunque.
L’enorme spartiacque giunse però con la FW18 di Raf Simons, quella delle stampe di Christiane F. e della grafica Drugs per intenderci, in cui il designer belga trasformò l’outfit del raver in una sorta di meta-riflessione su se stesso, sublimandolo in un design avant-garde in cui l’iconografia della rave culture diventava esplicita e artistica decorazione degli abiti. Sempre in quella stagione Christopher Bailey omaggiò i rave inglesi nella sua ultima collezione di Burberry mentre Prada sembrò prendere ispirazioni da quel mondo per l’uso dei suoi colori nel womanswear e per la sovrabbondanza di giacche di nylon e bucket hat nel menswear. Il secondo e nuovo spartiacque arrivò per mano di due fratelli georgiani che avevano fatto girare la testa a mezza Parigi con la loro dissacrante ironia: erano Guram e Demna Gvasalia e la collezione SS19 di Vetements portò il vibe dei rave est-europei nel linguaggio della moda parigina. In quella stagione anche altri rave citarono quell’outfit da club: Palm Angels, Matty Bovan, Martine Rose e persino l’abbottonatisismo Emporio Armani. Da lì in avanti quel tipo di estetica non andò semplicemente più via: designer come Virgil Abloh, Matthew Williams, Daniel Lee, Martine Rose, Demna, Ludovic de Saint Sernin, Jonathan Anderson, Kim Jones e Francesco Risso l’hanno tutti evocata negli ultimi tre o quattro anni. Il mondo dei rave è arrivato poi alla Milan Fashion Week anche attraverso il DJ Max Kobosil e con il suo 44 Label Group che è praticamente una versione luxury del rave wear venduto.
A farne un vero cavallo di battaglia è però il redivivo Diesel di Glenn Martens, che non solo ha recuperato la lisergica estetica sci-fi dei rave per i suoi show di Diesel, con le sue sinfonie di denim contorti, le pelvi scoperte, il sovraccarico visuale acido di colori e distressing ma ha persino organizzato un vero rave di 17 ore a Londra. Iniziativa coerente con l’immaginario concepito da Martens per il brand ma che dovrà confrontarsi necessariamente con il tipo di trasgressione che un rave implica – ma per riuscire serve rischiare.