
Il Met Gala in cui nessuno si è sforzato troppo Quest’anno sono stati in molti a non capire (o seguire) la tematica
Lamentandosi del Met Gala, qualche giorno fa, Tom Ford lo aveva definito «una carnevalata», parlando dei tempi in cui il gala era effettivamente un gala e non la notte più stravagante della moda. E anche se con Tom Ford in linea di massima siamo sempre d’accordo, il piacere di mettersi a giudicare gli abiti delle oltre duecento celebrity che hanno sfilato sul red carpet è troppo grande: in fondo, in un mondo fatto di jeans e sneaker, l’idea di un party in costume non è poi così orribile. Arriva dunque la fatidica sera. Il tema di quest’anno è Gilded Glamour, in riferimento non-ironico alla Belle Epoque americana, epoca di grandi eleganze ma di enormi disparità sociali, epoca di abiti lunghi e di frac vittoriani ma anche di flussi migratori, di corsa all’industrializzazione e di tutte le varie ambivalenze del sogno americano. Al di là dei significati reconditi, comunque, possiamo dire in termini semplici che ieri sera c’era un tema che non solo molte delle celebrity non sembrano aver colto, ma che tanti hanno apertamente ignorato vestendosi con dei look perfetti per gli street style della fashion week ma poco per il Met Gala. Di più: c’era l’impressione che alcune delle star fossero state vestite con dei look prelevati di peso dalla sfilata quasi si trattassero di manichini di una boutique messi lì a scopo promozionale, vestiti con un generico gusto più vicino al visual merchandising che allo styling ma senza quello sforzo e quel pensiero che fanno apprezzare un abito del Met Gala.
Altri look sono semplicemente poco spiegabili: Riz Ahmed sembrava vestito per andare al pub, Conan Gray per andare allo Studio 54, Manu Rios non si capiva bene dove volesse andare mentre Rege-Jean Page ha mescolato pericolosamente velluto e paillettes per un outfit che aveva decisamente troppi colori scuri, indistinguibile. Il ritratto della moda che ne emerge è quello di un'industria che non sa nè vuole coltivare l'imprevisto o lo scioccante, dominata da una cauta e molto rigida logica corporate che rimane incapace di stupire, per cui non solo anche lo stupore è un sentimento prefabbricato ma per cui il valore della celebrity presa per se stessa supera le considerazioni sul risultato finale, quando la necessità del branding (dopo tutto sono i brand a pagare i costosi posti a sedere per le celebrity) cancella l’importanza del fashion moment e in cui si rivela come alcuni (assolutamente non tutti) dei volti noti della moda di oggi siano solo i ricettori passivi di look senz’anima, stylati con la freddezza di un algoritmo.