La moda sta celebrando o sfruttando Andy Warhol? Riflessioni su un artista onnipresente

«L’arte degli affari è ciò che viene dopo l’arte. Ho iniziato come artista commerciale e voglio finire come artista degli affari. Essere bravo negli affari è la forma d’arte più affascinante. […] Fare soldi è un’arte, lavorare è un’arte – e i buoni affari sono la migliore forma d’arte», scrisse una volta Andy Warhol nei suoi diari. Una frase che fa molto pensare – specialmente in un’epoca come la nostra divisa tra la commercialità e l’unicità dell’arte. Tutte nozioni che Warhol aveva gettato fuori dalla finestra dichiarandosi superficiale e amante del consumismo, della ripetibilità commerciale dei prodotti industriali, di ciò che la cultura del tempo aveva di pop. E vedendo la maniera in cui, oggi, la moda fa uso di Andy Warhol e della sua arte, e cioè trasformandone il lascito artistico in una serie di grafiche facilmente vendibili, verrebbe forse da chiedersi se l’artista si considererebbe più celebrato o sfruttato dall’industria. Warhol, dopo tutto, era infatuato della celebrità, delle icone popolari, della sorridente commercialità dei divi di Hollywood – avrebbe forse amato la nostra epoca, il digitale, Instagram e probabilmente anche l’idea di fast fashion. Parliamo in fondo dello stesso artista che dichiarava che la cosa più bella delle capitali del mondo era McDonald’s. «Quel che c'è di veramente grande in questo paese è che l'America ha dato il via al costume per cui il consumatore più ricco compra essenzialmente le stesse cose del più povero», scrisse una volta. «Mentre guardi alla televisione la pubblicità della Coca-Cola, sai che anche il Presidente beve Coca-Cola, Liz Taylor beve Coca-Cola, e anche tu puoi berla». 

Calvin Klein 205W39NYC SS18
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Forse unico esempio di uso intelligente delle opere di Warhol nella moda fu quello di Raf Simons durante la sua breve ma brillante stagione alla guida di Calvin Klein. La collaborazione tra The Andy Warhol Foundation e Calvin Klein 205W39NYC per la collezione SS18 fu più che indovinata: non solo Raf Simons ricontestualizzò il lavoro di Warhol in senso multidisciplinare, tra i set disegnati da Sterling Ruby e i suoi stessi design, ma affondò lo sguardo nel lato più malinconico e macabro del lavoro dell’artista stampando gli abiti le sue foto di incidenti stradali e sedie elettriche, mettendo maliziosamente i fotogrammi del film Kiss sulla biancheria intima e ritratti di Stephen Sprouse (uno dei primi designer, insieme ad Halston, a portare il linguaggio di Warhol nella moda) ma anche citando indirettamente l’artista ricoprendo di plastica alcuni cappotti di lana – tocco, c’è da dire, che è un po' un trait d’union tra i linguaggi di Simons e Warhol. «American horror, American dreams», spiegò Simons a Vogue, dopo aver mescolato nella stessa collezione citazioni a The Shining, Carrie e a Dennis Hopper. Il lavoro di Simons con questa collezione era significativo proprio perché non mercificava Andy Warhol per se stesso, riproponendo il suo lato più “facile” e riconoscibile, ma ne contestualizzava le opere in un universo di reference più ampio per dipingere un ritratto della cultura americana vista da un europeo. A oggi, nessun altro designer ha interpretato l’arte di Warhol con la stessa efficacia.

Per rispondere alla domanda del titolo, potremmo dire che la moda sta sia celebrando che sfruttando Andy Warhol – sbilanciandosi però leggermente sul lato dello sfruttamento. Forse a Andy Warhol essere mercificato sarebbe piaciuto anche più che vedere la sua vita privata dissezionata attraverso mille film e mille documentari. Dopo tutto, come scriveva Vanessa Friedman nel 2018, in piena era Trump, viviamo in un’epoca profondamente Warhol-iana: 

«Viviamo in un momento in cui Warhol è onnipresente – in un paese guidato dal presidente più Warholiano di sempre, in un’epoca in cui Instagram ha fatto di ciascuno un influencer per 15 minuti, nel corso di un anno in cui il suo lavoro è stato celebrato come non mai».