
Matthew Williams, le accuse di plagio e il vero ruolo dei direttori creativi Una moda inclusiva significa un brand storytelling inclusivo
Ieri pomeriggio Diet Prada ha lanciato un nuovo call-out verso uno dei pesi massimi dell’industria della moda, Matthew Williams. L’accusa, partita in origine dalla ex-modella Athena Currey, è quella di aver copiato il lavoro del designer Benjamin Cho, scomparso nel 2017, replicando i suoi abiti composti da trecce di seta che si avvolgono diagonalmente intorno al corpo creando un effetto di trasparenza. Un abito creato con questa tecnica è stato uno dei cavalli di battaglia della scorsa collezione FW21 di Givenchy, apparendo di recente anche indosso a Beyoncé in uno shooting per Harper's Bazaar, ma, come evidenziato da Diet Prada, la somiglianza con gli abiti della collezione SS01 di Benjamin Cho è qualcosa di lampante. Ulteriori aggiunte nella IG Story di Diet Prada, che includono anche un DM del fashion editor di Paper Magazine, Mario Abad, hanno affermato che Cho non era stato menzionato nella press release – come anche nessun articolo a proposito della collezione lo menzionava. A rendere le cose più complicate, c’è anche l’amicizia fra Cho e Williams, il quale aveva lavorato per il designer all’inizio della sua carriera e che, dopo i commenti di ieri, ha scritto una IG Story, poi cancellata, in cui riconosceva che l’abito fosse un “omaggio” a Cho.
La complicata questione degli omaggi nella moda
In una recente intervista rilasciata ad Highsnobiety di nome The Fashion Industry Says It’s More Open, But Is It Really? condotta da Cristopher Morency, il giornalista indipendente e youtuber Odunayo Ojo ha detto:
«Una cosa che ho sempre trovato molto frustrante è il sistema per cui ai designer piace comportarsi come se tutto provenisse da loro, quando non è così. […] Ogni direttore creativo ha molti assistenti che gli portano idee. E quando il prodotto finale è realizzato […] si prendono tutto il merito per coltivare la loro aura».
Sottolineando di fatto come la narrativa degli uffici stampa spesso descriva i direttori creativi come i giornali di cinema descrivono i registi, cioè come i singoli autori di un lavoro che è stato sì diretto da lavoro ma rimane lo sforzo collettivo di un largo team che rimane invece nell’ombra. La differenza è che al cinema i titoli di coda elencano anche il nome dell’ultimo degli assistenti, mentre alla fine di una sfilata a uscire in passerella e inchinarsi c’è soltanto una persona che appare illusionisticamente responsabile dell'intera collezione. L’illusione è necessaria per fini strettamente narrativi e commerciali, serve un solo volto, una sola superstar che il pubblico possa chiamare per nome, e dunque se ci sono troppe ispirazioni o rimandi si correrebbe il rischio di pregiudicare il ruolo-cardine del direttore creativo – ma il mondo della moda si sta muovendo verso nuove direzioni, dove la collezione diventa sempre di più un modello collaborativo e aperto, come è stato ad esempio l'ultimo show di Dior Homme, in cui il direttore creativo si discosta dal ruolo fittizio di autore assoluto e diventa il curatore di una collettività o community che ha contribuito allo sforzo artistico e produttivo.