Come Helvetica è diventato il font della moda Il typeface che ha omologato loghi e comunicazione di brand molto diversi

Accanto all'introduzione di elementi nuovi, come il zip-tie, e un lavoro più strutturale su alcuni dettagli delle silhouette, l'innovazione maggiore apportata da Virgil Abloh sulle sneaker della sua collaborazione con Nike è senza dubbio il lettering, la presenza costante di parole dove prima non erano mai apparse. Più che le parole stampate sulle scarpe della collezione The Ten - e quelle successive - conta come il messaggio viene veicolato a livello visivo, un elemento questo che è diventato il benchmark dell'immaginario di Abloh. Sia che si trovi compreso tra le ormai iconiche virgolette o che sia da solo, il font scelto (anche) da Virgil negli ultimi anni è diventato lo strumento per eccellenza per comunicare in modo diretto ed oggettivo idee innovative e progetti per il futuro. 

È con l'obiettivo di adattarsi ad ogni schermo che lo scorso anno viene presentato Helvetica Now, l'evoluzione finale di un carattere storico. 

Prima ancora del successo dirompente di Virgil Abloh, il mondo della moda si era accorto da parecchio delle potenzialità di Helvetica a livello di comunicazione. È da circa due anni che si sente parlare di blanding così come della perdita di identità dei loghi dei brand di moda, un fenomeno che interessa anche i loghi delle case automobilistiche.
All'inizio fu Saint Laurent, a cui seguirono a stretto giro Burberry, Balmain, Celine, Diane Von Furstenberg: il modo migliore per segnalare l'inizio di un nuovo corso - o l'insediamento di un nuovo direttore creativo - è cambiare il logo, rendendolo più pulito, più immediato, facile da ricordare e senza troppi fronzoli, di fatto trasformandolo in qualcosa di molto simile agli altri loghi già in circolazione. Per questo tipo di operazione non c'è font più usato di Helvetica, typeface da tempo adottato anche da The North Face, Fendi, A.P.C., Hood By Air, Fragment Design. Solo ad elencarli si intuisce come Helvetica sia diventato il comun denominatore di brand molto diversi fra loro, ognuno simbolo di un'estetica e di un immaginario differenti, tanto nel mondo streetwear quanto in quello del lusso. Il typeface è diventato così un contenitore vuoto, mezzo di comunicazione oggettivo, orfano di qualsiasi valore artistico, nascondendo poco o niente dietro quelle lettere così distanziate da loro. Paradossalmente il font che più di tutti non ha particolari segni distintivi è quello scelto per distinguersi, per segnalare un nuovo inizio, finendo così per creare un'omologazione di loghi e branding che non rispecchia la pluralità delle voci della moda. La tendenza è a semplificare, a togliere ogni tipo di stratificazione, per riuscire a parlare nel miglior (e più immediato) modo possibile con il consumatore finale, meglio ancora se appartenente alla Gen Z. 

Sorge tuttavia una domanda. Una volta segnalato l'inizio di una nuova era, questa omologazione non potrebbe diventare un pericolo, un'arma a doppio taglio? In un momento in cui comunicare la propria identità è fondamentale per la riuscita di un brand, a maggior ragione sui social, avere un logo diverso dagli altri non potrebbe essere un punto a proprio vantaggio? Occorrerebbe allontanarsi da un percorso tracciato e già di sicuro successo. Certo, occorrono anni prima di riuscire a far diventare un semplice colore il logo di un brand, ma siamo sicuri che Helvetica sia ancora il font migliore che esista?