
Alle origini dell’Harajuku street style: intervista a Shoichi Aoki Il founder di FRUiTS magazine racconta lo stile che definì il Y2K in Giappone
Quando ancora Instagram non esisteva e le pubblicazioni di moda raccontavano di un mondo ovattato e lontano, di raffinati saloni parigini e passerelle milanesi, era poco lo spazio che l’editoria tributava allo street fashion. Negli anni ’90, Shoichi Aoki fu uno dei primi a documentare l’estetica street del quartiere Harajuku di Tokyo, narrandola sulle pagine dell’iconico FRUiTS magazine e facendo da ambasciatore dello streetwear giapponese nel mondo. Lo stile Harajuku era al di là di ogni definizione: kitsch, colorato, bizzarro, diverso da qualunque cosa si fosse mai visto prima. E il pregio maggiore di FRUiTS magazine era quello di essere una vera e propria cronaca della vita di un quartiere giovane e dinamico nel Giappone di quell’epoca. Era una rivista allegra, giovane, che celebrava la cultura locale elevandola allo stesso status di cui godeva l’inaccessibile mondo della couture e, per molti versi, precorreva quell’espressione di sé che sarebbe si sarebbe avuta con Instagram decenni dopo.
Dal punto di vista di uno straniero, come è cambiata Tokyo dagli anni '90 ad oggi? Come pensa che la cultura sia cambiata?
Penso che Tokyo, in particolare Harajuku, sia diventata vittima del proprio successo. Grazie a riviste come FRUiTS e KERA, il mondo ha scoperto e abbracciato gli stili della sottocultura giovanile giapponese e questa popolarità globale ha riportato Harajuku al punto di sovrasaturazione. Harajuku divenne una sorta di parodia di se stesso. Ho vissuto a Londra per molti anni e ho visto una trasformazione quasi identica accadere a Camden Town. Per fortuna stiamo assistendo a una rinascita di stili unici con nuovi designer e atteggiamenti diversi. Tutto torna a questa evoluzione e simbiosi che rende la moda così coinvolgente!