
Che cos'è il greenwashing? Un post di Noah NYC è lo spunto ideale per rilanciare il tema della sostenibilità e dell'ipocrisia intorno ad essa
Nel 2019 quello della sostenibilità è diventato un tema caldissimo, che ha alimentato ovunque il dibattito pubblico, e specialmente nel mondo della moda. Moltissimi brand, dal fast fashion al luxury, sono dunque corsi ai ripari, avviando iniziative benefiche, firmando accordi e pubblicizzando prodotti eco-friendly creati con materiali di recupero. Tutte misure che hanno in realtà fatto poco per l’effettiva risoluzione dei problemi dell’inquinamento e un cambiamento radicale e sistemico dell’industria. Noah NYC, invece, ha puntato alla discrezione, rilasciando negli scorsi giorni uno statement in cui dichiarava di non essere nemmeno vicina a raggiungere i mark-up della sostenibilità elencando i propri sforzi per diventare un'azienda responsabile. Qui il testo completo:
“Nonostante i nostri continui sforzi di esplorare e usare sempre più materiali riciclati, rinnovabili ed eco-friendly nei nostri prodotti e packaging, Noah non è ancora un brand sostenibile. Non ci siamo nemmeno vicini.Però, stiamo lavorando al massimo per diventare un’azienda responsabile. Produciamo i nostri prodotti in fabbriche e paesi che rispettano i lavoratori. Concentrandoci sulla qualità e incoraggiando i nostri clienti a informarsi su ciò che acquistano, speriamo di ridurre man mano il consumismo rampante [...]. Continueremo anche a raccogliere e donare fondi per altre cause importanti, dai diritti umani alle calamità naturali, e a informarne la nostra community”.
Questo statement è significativo perché spesso la volontà di proclamarsi consapevoli e attenti alla questione della sostenibilità ha spinto alcuni brand a pubblicizzare come sostenibili o rivoluzionarie iniziative che poco o nulla incidevano sulla propria impronta ecologica generale: è proprio in questi casi che si parla di greenwashing. A peggiorare la situazione, c’è il problema di informazioni che circonda la questione, spesso viziata da dati tanto falsi da essere diventati leggende urbane. La diceria secondo cui l’industria della moda sarebbe la seconda più inquinante, riguarda ad esempio un report relativo alla sola provincia cinese di Jiangsu pubblicato anni fa, ma deformato e ripetuto senza fondamento dai media di tutto il mondo.
Nonostante altri settori (come quello energetico, dei trasporti e della produzione alimentare) abbiano iniziato a investire nell’energia pulita, nei veicoli elettrici e in soluzioni per l’agricolutura, questo interesse non ha ancora preso piede nell’attuale industria della moda. Le innovazioni dette a basso impatto sono infatti facili da implementare, ma quelle ad alto impatto o “hard-tech”, ossia quelle che richiedono soluzioni del tutto nuove, possiedono cicli di ricerca, sviluppo e implementazione molto più lunghi e complicati e gli investimenti che sarebbero necessari eccedono le capacità dei singoli brand. Una via d’uscita potrebbe essere quella delle collaborazioni: come quella fra adidas, Stella McCartney e la startup Evrnu per produrre una capsule al 100% sostenibile. Ma fino a quando grandi investimenti e concrete soluzioni non saranno disponibili, la strada migliore sarà quella dell’onestà. Meglio un’azienda che si sforza per essere responsabile, di una che proclama falsamente di essere sostenibile.