
La cultura hipster ha ucciso l'estetica di Wes Anderson? Sopravvivenza di un mito hipster in un mondo in cui gli hipster sono scomparsi
Insieme a Quentin Tarantino, Wes Anderson è forse il regista più famoso e riconoscibile della sua generazione. Il suo stile narrativo e visivo, fatto di colori pastello, simmetrie assolute, dialoghi iper-espositori e intricati dettagli, rappresenta un mondo così chiuso in se stesso da essere diventato negli anni tipo di estetica – come successe nel 2013 con lo sketch di SNL che immaginava una versione Anderson-iana del celebre horror The Strangers. I film di Wes Anderson 15 anni fa fornivano materiali per quei Tumblr tra il basic e il pretenzioso che condussero all’esplosione della cultura hipster che sull'onda del Facebook prima maniera ebbe una diffusione e democratizzazione che nessun'altra subcultura estetica aveva avuto prima. Ancora oggi milioni di fan in tutto il mondo amano i film di Anderson, che nel corso della sua carriera è arrivato a portare la propria estetica al di fuori del cinema, “firmando” l’arredamento del Bar Luce in Fondazione Prada o, di recente, collaborando con il gruppo Belmond Limited al rifacimento di un treno degli anni ’50 ma soprattutto diventando letteralmente il sinonimo di un certo tipo di estetica, rapidamente spazzata via dai trend visuali dal facile e rapido consumo di Netflix e dello streetwear. La cultura hipster, compresa l'estetica di Wes Anderson, è ancora sinonimo di pretenziosità anche se, giunti ormai alla fine del trend Y2K e all’alba dell’Indie Sleaze, una nuova schiera di designer come Emily Bode, Luke Hall di Chateau Orlando, S.S. Daley, Jezabelle Cormio, Nigo per Kenzo e Charaf Tajer di Casablanca stanno rivisitando quell’universo preppy, elegante e scanzonato.
ASTEROID CITY
— Asteroid City (@AsteroidCity) March 29, 2023
A film by Wes Anderson
Only in theaters June 16 pic.twitter.com/sFxmtqQxXd
Il nuovo film di Anderson, Asteroid City, il cui trailer è stato rilasciato ieri, promette di riportare in auge un’estetica vintage anni ‘50 che sembrava sparita per sempre dal radar ma che invece quest'anno ha rifondato la propria esistenza sul ritorno del vintage e della ricerca di capi d’epoca legati al mondo dei college americani. Dalle Teddy Jacket al tailoring sagomato, passando per la ritrovata popolarità delle patch come elemento decorativo, non si può certo dire che l’hipster sia tornato (dopo tutto la moda guarda oggi allo stealth wealth e alla sartoria concettuale e ultra-minimalista) ma è sicuro che quella vena di romanticismo indie sia viva adesso e tornerà forse a prosperare in futuro. Certo, molti avevano decretato che The French Dispatch fosse stato il salto dello squalo per Anderson e il suo stile, il punto di non ritorno oltre il quale quella simmetria e quella leziosità aveva stancato – ma la verità è che, non appena è uscito, il trailer del nuovo film è tornato a essere virale sui social. In tempi come questi, dopo tutto, in cui spesso lo stile oltrepassa la sostanza, a chi rivolgersi se non al maestro della stilizzazione estrema?
Wes Anderson e la cultura Old World
Al netto delle impressioni che The French Dispatch ha lasciato, è forse giunto il momento di domandarsi come lo stile di Anderson sia invecchiato in un mondo che, dai tempi de I Tenembaum, è irrimediabilmente cambiato. Non è un caso se almeno due tra i film del regista, Il treno per il Darjeeling e Isle of Dogs, siano stati accusati di una certa insensibilità culturale: il primo per la sua visione ampiamente stereotipata della cultura indiana e per l’ottica vagamente colonialista di molte scene; il secondo per la presenza di numerosi cliché razziali e la presenza di un white savior che finisce per sciogliere i conflitti della trama. Al di là degli aspetti problematici di questi due film, il resto della produzione creativa di Anderson orbita intorno a un’estetica fortemente legata alla white upper-class che, ai tempi dell’ondata hipster dei primi anni ’10, risultava assolutamente deliziosa ma il cui tono reazionario, oggi, potrebbe risultare forse antiquato. Ma di recente abbiamo assistito a un nuovo fenomeno apparso tra gli street style delle ultime fashion week: gli elementi riconoscibili e upper-class della sartoria vengono ri-appropriati, spogliati della loro aura di privilegio e ricontestualizzati in modo tale da diventare un framework riconoscibile dentro cui inquadrare nuove spinte culturali. Completi gessati, pantaloni anni '70, mocassini e camicie dal lungo colletto sono tornate un po' ovunque a ricordarci che la sartoria è molto più del business casual dei finance bros e che possiede un intero range espressivo declinabile attraverso le estetiche di molteplici subculture sia vecchie che nuove.
Dopo tutto gli stessi film di Anderson non si concentrano ossessivamente sulla questione del privilegio, anzi: in The French Dispatch si parla dei moti rivoluzionari del '68 e del rapporto tra arte e salute mentale; in Grand Budapest Hotel si parlava del sorgere degli assolutismi e di immigrazione; ne I Tenembaum si affrontava l’idea delle famiglie disfunzionali, del suicidio e degli effetti del privilegio sociale. Ma l’impressione dominante è che l’universo culturale a cui si rifà il regista abbia perso il polso culturale delle cose, lasciandosi andare a una specie di nostalgica autoreferenzialità che include, ad esempio, rispolverare l’epoca d’oro del giornalismo intellettuale tra gli anni ’20 e i ’70 e che non ha più contatto con il presente. In breve, l’estetica di Anderson pur mantenendo tutto il suo valore artistico ha perso quella rilevanza e attualità culturale che aveva un tempo un po’ come è successo a tutti quei registi rappresentativi del canone cinematografico della hipster culture come Woody Allen, Xavier Dolan, Sofia Coppola, Gus Van Sant, Nicolas Winding Refn o Jim Jarmusch.
La sua longevità si spiega allora considerando come, anche se la subcultura degli hipster è morta e sepolta, le sue influenze e ramificazioni sopravvivono ancora: l’ossessione per il vintage e l’archivio, la ricerca di realness, l’orientamento politico liberal, l’importanza dell’originalità e dell’auto-espressione, la nostalgia di un passato migliore, l’importanza dell’educazione di fronte al crescente anti-scientismo ma anche l’ossessione per l’occulto e la spiritualità che emerge ovunque su Instagram e TikTok. A essere cambiate sono solo le premesse: se gli hipster fondavano la propria validità su privilegi come le università private e su un senso di elitismo culturale, il multiculturalismo di oggi sta tentando di leggere quello stesso patrimonio culturale da prospettive meno adoranti e più molteplici oltre che a includere patrimoni culturali diversi e alternativi all’interno dei canoni artistici ed estetici. E dunque il linguaggio di Wes Anderson non è del tutto moderno né del tutto retrogrado – anche se forse avrebbe bisogno di un salutare aggiornamento.