
L’arte digitale spiegata da chi la conosce bene Intervista a Ludovica Rosi, co-fondatrice di Zero One
Che cos’è l’arte AI e può essere classificata come tale? È una delle domande che si è posta Christie’s, una delle più grandi case d’aste al mondo che questo febbraio ha tenuto la sua prima vendita di opere AI a New York. Quando è stata rivelata la natura dell’asta, migliaia di artisti, appassionati e critici d’arte si sono scagliati contro Christie’s: circa 6mila persone hanno firmato una petizione per l’annullamento dell’evento, sostenendo che i programmi utilizzati nelle opere siano stati creati sulla base di opere protette da copyright. Christie’s afferma che «l’AI è intrinsecamente umana». Il Manager dell’Arte Digitale della casa, Sebastian Sanchez, sostiene che «I codici possono essere considerati un tipo di craft» e che «le mani sono sempre coinvolte in qualche forma, anche se non necessariamente nel senso tradizionale della pittura o del disegno. Gli ingegneri programmano le reti e alcuni artisti utilizzano strumenti preesistenti, generando arte attraverso raffinati suggerimenti testuali». La polemica che avvolge l’ingresso in campo dell’intelligenza artificiale nel mondo delle arti è tutt’ora in corso di espansione e sta coinvolgendo anche il settore dell’editoria, della moda, dell’interior design e dell’architettura. Questa primavera il problema raggiungerà l’Italia, più precisamente la Milano Design Week, l’evento di design più rilevante al mondo che per nella nuova edizione sarà proprio dedicato al digitale e all’intelligenza artificiale. Come sempre, però, in tutto questo polverone c’è qualcosa di buono. «L’innovazione ha sempre portato scalpore», ricorda Ludovica Rosi, co-fondatrice della piattaforma per l’arte digitale Zero One. «Quindi il fatto che 6mila artisti abbiano firmato una petizione contro l’AI in realtà è una cosa molto positiva, è giusto che sia una rivoluzione».
Zero One è una piattaforma di condivisione per l’arte digitale che, oltre a rappresentare uno dei primi social media nel suo genere, prova a riscrivere le regole degli algoritmi attraverso l’eliminazione dei like. L'app permette di postare gratuitamente le proprie opere attraverso un sistema in cui il “mi piace” si traduce nel possedimento stesso dell’opera. «C’è un vero e proprio passaggio di proprietà - spiega la co-fondatrice Rosi - un’artista può condividere fino a un’opera al giorno». La creatività diventa la valuta principale su Zero One, perché per poter possedere un’opera bisogna condividere e interagire con gli altri. Dal suo lancio, nell’agosto del 2023, Zero One accoglie svariate tipologie d’arte, dalla scultura alla pittura passando per le grafiche, i podcast e persino l’audiovisivo. «Sta diventando una sorta di museo aperto - continua Rosi - che accoglie tutta l’arte senza alcun tipo di filtro». Per la co-fondatrice di Zero One è proprio questa la qualità principale dell’arte digitale: mentre il settore è da tempo chiuso in se stesso, schiacciato sia dal sistema elitario che ha costruito negli anni sia dalle restrizione fisica data dagli spazi limitati (e limitanti) delle gallerie, sulla piattaforma anche gli artisti più isolati possono fare conoscere il proprio lavoro ai colleghi. « Mi piace il fatto che una persona argentina possa postare e far conoscere la sua opera e la vede una persona in Iran, qui tutti si incontrano».
Oltre a sostenere gli artisti digitali, uno dei principali obiettivi di Zero One è «creare un mercato e educare una nuova generazione di collezionisti a capire qual è il valore dell'arte digitale». Molti degli artisti che hanno partecipato all’asta di Christie’s dello scorso febbraio fanno parte dell’universo di Zero One, racconta Rosi, che rivela che la cosiddetta «bad press» che ha ricevuto l’evento in realtà sta giovando all’intero settore. La cosa più affascinante dell’arte digitale, spiega la co-fondatrice, è che il processo di creazione, l’artista e l’osservatore spesso diventano parte stessa dell’opera. Alcuni lavori sono frutto di anni e anni di studio e di perfezionamento dell’AI, perciò il prodotto finale racconta un lungo processo che in qualche modo esprime «un’estensione dell’identità dell’artista». A volte, aggiunge la co-fondatrice, la parte più interessante di un’opera AI non è tanto l'opera in sé, «quanto tutto il lavoro di training della macchina. L’arte digitale è anche divertente, molte cose sono anche interattive, generative, cambiano in base a chi hanno davanti». In più, le opere create in collaborazione con l’intelligenza artificiale spesso servono proprio a investigare l'utilizzo delle nuove tecnologie per comprenderle meglio. All’asta di Christie’s, nell'opera Emerging Faces (2017) di Pindar Van Arman due agenti AI lavorano contemporaneamente su una serie di ritratti: uno dipinge, l’altro lo interrompe appena riconosce un volto umano. «È molto umanistica», commenta il manager di Christie’s Sebastian Sanchez.
Rosi espone l’esempio di movimenti come il dadaismo, il futurismo e l’impressionismo per dimostrare che l’indignazione suscitata dall’arte AI non è nulla di nuovo nella industry. «I pionieri sono sempre antesignani», aggiunge, ricordando che tanto è potente la risposta contraria a un movimento quanto il suo impatto culturale. In appena due anni, Zero One è diventato sponsor di fiere d’arte tradizionale a Seoul e messo radici a Tokyo, a Londra e a Lisbona. Collabora con il Berkley College of Music di Boston, la Pratt University di New York, la Parsons e l’IFM di Parigi e anche l’Università di Capo Verde. Mentre l’Italia, in tutto il suo tradizionale ritardo nell’innovazione artistica, fatica a tendere l’orecchio al nuovo movimento innescato anche dall’avanguardia di Zero One, il resto del mondo si è già risvegliato all’enorme potenziale che gli artisti digitali garantiscono all’industria. Oltretutto si tratta di un affare socio-politico, precisa Rosi, perché attraverso le criptovalute, ritenute più sicure per i paesi colpiti dalle guerre o da tensioni anologhe, gli artisti possono raggiungere collezionisti da tutto il mondo. Insomma, se come dice la co-fondatrice di Zero One il riscontro che sta ricevendo l’arte digitale «è quasi di paura», l’Italia si sta dimostrando la più fifona di tutti.