
Essere nudi significa essere sexy? L’eterna contraddizione di raccontare il corpo maschile
La settimana scorsa, commentando l’ultimo show newyorchese di LaQuan Smith, Culted ha scritto un pezzo intitolato SS24 menswear is bringing sexy back. Titolo di circostanza, si capisce, ma che dà adito alla domanda: il menswear non era già diventato “sexy” tempo fa? E come lo era diventato? In maniera forse banale, molti look maschili sono diventati più audaci perché più rivelatori. Ma il problema qui è che questa idea di sexyness non riguarda gli abiti accorciati, scollati, privati di maniche e via dicendo; ma riguarda i corpi che li indossano. In un certo senso, è come se il design degli abiti lasciasse al corpo umano il compito di evocare il desiderio in una maniera che, per dirla senza mezzi termini, è ottusamente tendente all’erotismo. Il che non è un male di per sè, certe maniere di scoprire il corpo possono anche raccontare significati più complessi - ma queste sono usate così massicciamente da suggerire un genere di abbigliamento che potremmo definire “thirst trap fashion”: abiti creati con malizia per essere indossati con malizia. Un approccio legittimo che però, se totalizzante, risulta riduttivo. Sia per le famose questioni di body diversity e ageismo nel cui merito non serve davvero entrare, sia per una questione, forse meno ovvia ma più pressante, di maturità artistica e intellettuale. La questione ovviamente riguarda anche le vendite: se esiste senza dubbio una clientela per la thirst trap fashion, ne esiste una assai più vasta e altrettanto giovane e capace di spendere che invece apprezzerebbe nozioni più sfumate di sexyness capaci di andare oltre il banale spogliamento del corpo. È chiaro, comunque, che le due alternative non sono mutualmente esclusive.
Senza voler concentrarsi soltanto sulle ultime sfilate, ogni fashion week è abbastanza ricolma di corpi semi-nudi esaltati come un metro di paragone di come è lecito o illecito presentarsi. La valuta intangibile della moda, anche a distanza di anni, rimane il desiderio – di lusso, di bellezza, di ricchezza, di gioventù. Nè è un caso che la regola di business più antica del mondo è «Il sesso vende». Eppure spogliare corpi “aspirazionali” non significa rendere sensuali gli abiti, solo aumentare la desiderabilità dei corpi – oltre che attirare la preziosa attenzione del pubblico, che è poi il primo carburante delle vendite. Il che non significa che non ci sia anche in questo senso un’arte dello styling (pensiamo all’influencer Marlon Noah che è diventato quietamente virale più per il proprio styling e la sua identità visiva che per il proprio fisico atletico, che comunque resta il presupposto dello styling stesso) ma serve davvero lo styling a valorizzare un corpo convenzionalmente bello? Le molte esibizioni di fisici atletici, la recente invasione di canottiere e top smanicati nella moda maschile ci dice che, in realtà, un corpo scolpito è in molti casi ornamento di se stesso. Si è realizzata la profezia di Rick Owens che un tempo disse: «Allenarsi è la moderna couture. Nessun outfit ti farà sentire o apparire tanto bene quanto un corpo ben allenato. Comprate meno vestiti e andate in palestra». Ma è davvero possibile che l’intero mondo della sensualità maschile possa essere ridotto a un abbonamento in palestra e a un ventre piatto? Il genere maschile e la sua sessualità sono davvero un pianoforte con un tasto solo? E la marea di designer a lavoro nella marea di brand che esistono sul mercato oggi sono davvero una schiera di one-trick pony capaci solo di pescare a piene mani dalle modalità espressive del mondo queer e BDSM? Sicuramente quella è la via più semplice – ma non dimentichiamo che qui vogliamo parlare della sensualità degli abiti e non di quella dei corpi, la cui connessione al desiderio umano, sotto qualunque forma esso si presenti, è qualcosa di ovvio e prevedibile.
La ricerca di una “sensualità vestita”, dunque, non deve rappresentare una sorta di approccio moralistico e castigante all’espressione del corpo maschile, né riguarda nozioni come il decoro e il buon gusto. Si tratta piuttosto di esplorare davvero e con intelligenza altre e innovativi percorsi nella rappresentazione e auto-rappresentazione del cliente di menswear – un po’ come Jonathan Anderson ha fatto con la collezione SS24 di Loewe che ha reinventato una silhouette maschile fattasi stantia o come, più di vent’anni fa, fece Raf Simons con la skinny suit. In un’epoca di appiattimento commerciale della moda, dove pare impossibile trovare nuovi sbocchi a un guardaroba maschile in cui paiono non nascondersi più terre incognite, risolvere il nodo della sexyness maschile potrebbe forse rappresentare il marchio distintivo della figura di innovatore di cui il sistema della moda inteso più come industria culturale che commerciale ha così disperatamente bisogno.