Il potere dei nomi nella moda secondo la legge Abbiamo chiesto alla dottoressa di giurisprudenza Lucrezia Massa Finoli cosa dice la legge sulla tutela del nome nei brand di famiglia

Un nome è qualcosa di molto potente, specialmente nel mondo della moda. Prima di conoscere il linguaggio e i codici estetici di un brand, ne conosciamo il nome. Tanto che i più avversi al concetto della logomania si lamentano spesso che un certo prodotto sia semplicemente un oggetto banale con un nome stampato sopra – ma è precisamente nelle poche lettere di quel nome che si nasconde il potere di un brand. Spesso questi nomi sono condivisi, come capita nel caso dei marchi di moda a conduzione familiare che, specialmente in Italia, sono moltissimi: dinastie come i Gucci, i Prada, i Ferragamo, i Versace, i Zegna e via dicendo, sono da decenni al timone di aziende che rappresentano il meglio del proprio settore. Ma un nome condiviso è anche un nome che può disperdersi – e disperdendosi può sottrarre potere al brand che quel nome rappresenta. 

La famiglia Gucci
La famiglia Ferragamo
La famiglia Versace
La famiglia Zegna
Mario Valentino by Helmut Newton
Mario Valentino by Helmut Newton
Mario Valentino by Helmut Newton
Mario Valentino by Helmut Newton
Mario Valentino by Helmut Newton
Mario Valentino by Helmut Newton
Mario Valentino by Helmut Newton
Mario Valentino by Helmut Newton
Mario Valentino by Helmut Newton
Mario Valentino by Helmut Newton
Mario Valentino by Helmut Newton
Mario Valentino by Helmut Newton

Altra questione riguarda i discendenti del founder di un brand che vogliono usare il proprio nome a fini commerciali, come nel caso di Guccio e Alessandro, figli di Giorgio Gucci. In quel caso «la cessione del marchio patronimico implica la perdita per il titolare della possibilità di utilizzo del proprio nome come marchio». Non di meno, quel nome può essere utilizzato nel rispetto dei «principi di correttezza professionale» ma anche in modo tale da «non ingenerare rischi di confusione tra i consumatori». La questione della cessione dei propri nomi ha numerosi precedenti nel mondo della moda: Jil Sander, Thierry Mugler, Martin Margiela, Ann Demeulemeester, Helmut Lang, Halston, John Galliano e Donna Karan sono tutti esempi di designer che hanno venduto i trademark legati al proprio nome, perdendo i diritti all’uso dello stesso e generando confusione in casi come quello della collaborazione tra Uniqlo e la designer Jil Sander, che hanno firmato una collezione di nome J+ in quanto, come ha specificato a nss magazine una rappresentante del marchio «il brand porta il suo nome, ma la Sig.ra Sander non è più legata alle attività della maison».

Non è un caso se i designer-star della nuova generazione come Alessandro Michele, Hedi Slimane, Kim Jones, Matthew Williams o Phoebe Philo siano sempre stati molto attenti a non sovrapporre mai il proprio nome a quello del brand per cui lavoravano, utilizzandolo solo nel caso di collaborazioni a sé stanti. Una tendenza che ha evidenziato come, per i designer di oggi, memori del passato, il marchio patronimico sia diventato un bankable asset, dotato di un valore intrinseco unico, che tutti i designer del futuro dovranno imparare a difendere se non vogliono seguire il destino di Paolo Gucci.