
Quando la moda diventa trolling L’industria del lusso prende in giro se stessa o i suoi consumatori?
Ieri, la release delle sneaker e del merch di Lidl ha spinto centinaia di persone ad accamparsi fuori dai supermercati della catena tedesca per aggiudicarsi un prodotto che, pur non potendo vantare alcun valore estetico, possiede già uno stato di cult e ha alimentato centinaia di meme online. Quando si compra una sneaker di Lidl, non si sta comprando veramente una scarpa, ma un concept ironico del tutto immateriale - una presa in giro dell’intera hype culture, un vero e proprio trolling che racconta però molto delle più recenti evoluzioni della fashion culture. È già da qualche anno infatti che l’alta moda ha fatto proprio il concetto di trolling: Gucci che vende collant bucati, borse con la scritta Fake e jeans con macchie artificiali d’erba a prezzi da capogiro, Demna Gvasalia che, con Balenciaga, copia il suo stesso lavoro da Vetements per poi auto-denunciarsi online o che fino a qualche anno fa organizzava una sfilata in un McDonald’s. L’arte del trolling online, il concetto di triggering, puntano ad attirare l’attenzione degli utenti suscitando emozioni viscerali: scandalo e indignazione creano memorie ostinate, ricordi tenaci sempre chiari nella mente del consumatore finale, che tenderà a ricordare più un marchio che per un verso o per l’altro lo scandalizza che uno di grande valore ma che non suscita la stessa virulenta reazione.
Ovviamente dietro il fenomeno non si nascondono chissà che cabale o misteri antropologici, ma le fredde e spietate logiche del marketing moderno: in un mondo in cui i contenuti pubblicitari sono ovunque, bisogna usare la forza e l’oltraggio per catturare l’attenzione. È più economico far parlare di sé con un prodotto che diventa un meme che con una ambiziosissima campagna di moda, i brand vendono purché si parli di loro. Tanto più che diventare un meme, nel 2020, equivale a essere beatificati.
Ma il trolling della moda presenta anche spunti di analisi interessanti, che dimostrano in che termini il concetto di lusso si vada intellettualizzando, facendo passare in secondo piano la perfezione estetica o la qualità dei materiali rispetto a un concept puro – che diventa un elemento immateriale che, paradossalmente, può essere indossato. Il risvolto negativo però è la maniera in cui ciò che vent’anni fa era creatività pura (per fare due esempi banali, la decostruzione degli abiti e delle silhouette o l’esplorazione/nobilitazione del trash di Jean Paul Gaultier) finisca per scorrere sempre più a valle verso il mainstream spogliandosi della sua serietà per diventare gimmick, espediente commerciale o comunque caratteristica solo superficiale di un processo creativo subordinato alla comunicazione, che pone più enfasi sullo storytelling del brand che sui suoi effettivi prodotti, rendendo la moda qualcosa di bidimensionale e facendo sembrare appiccicaticcia la cultura che la circonda. Gli scherzi sono belli ma solo quando durano poco.