La pandemia non ha distrutto il fast fashion Dopo i mesi di lockdown siamo tornati alle vecchie abitudini di shopping

Ben prima dell'emergenza sanitaria il fast fashion era uno dei settori più in crisi dell'industria della moda. Da tempo ormai colossi del settore come H&M o Gap si trovano ad affrontare le conseguenza di un modello di business ormai superato, una situazione peggiorata dalla nuova coscienza ambientale di un pubblico di consumatori, la Gen Z, mai come oggi strategico, che si muove di pari passo ad una visione diversa della moda, che torna ad essere duratura, slegata da trend passeggeri, un mindset ulteriormente accentuato dalla pandemia

Proprio per questo secondo molti il lockdown poteva essere un'opportunità per rallentare il ritmo di un'industria che si muove ormai su tempi insostenibili, sia a livello di produzione che di consumo, due fattori che hanno degli effetti devastanti sul volume di merce invenduta di cui i brand si devono poi disfare. Solo nel Regno Unito infatti si parla di 11 mila capi di abbigliamento distrutti ogni settimana. La domanda quindi è: è andata davvero così? Abbiamo iniziato davvero a fare shopping in modo diverso, più consapevole, più oculato? 

L'andamento del settore fast fashion è altalenante: dopo i difficili mesi primaverili, le vendite online di ASOS sono nuovamente cresciute ad agosto, con un aumento del 97% rispetto allo stesso mese del 2016. Per quanto si tratti di dati positivi per l'industria e per l'economia in generale, sono anche la prova che nel giro di pochissimo siamo tornati a fare shopping come facevamo prima del lockdown, spinti da offerte che appaiono irrinunciabili e mossi dal desiderio di possedere item anche per una sola stagione, dimenticandoci presto di tutti i buoni propositi fatti qualche mese fa.