Quanto sta costando il Coronavirus all'industria della moda Dal fast fashion al luxury, tutti i settori iniziano a fare i conti con perdite e cali di vendite

La pandemia da Coronavirus ha cristallizzato la nostra quotidianità in una quarantena casalinga di cui ancora non si intravede una data di fine. Tralasciano il fattore umano di questa epidemia (che si sta portando via migliaia di vite), la diffusione del COVID-19 avrà inevitabilmente conseguenze devastanti sull’economia globale, un impatto che ancora non è stato compreso e analizzato del tutto. 

Quel che è certo per il momento è che con migliaia di negozi chiusi, eventi cancellati, collezioni rinviate, l’industria della moda sta iniziando a fare i conti con l’effetto del COVID-19 sui propri fatturati. L'andamento degli affari e delle vendite riflette in modo puntuale il diffondersi e l'evoluzione dello stesso virus, partito dalla Cina e arrivato presto in tutta Europa, Stati Uniti e resto del mondo. Se all'inizio i cali e le perdite maggiori si verificavano in Cina, è proprio da questo territorio che i brand stanno già cominciando lentamente a ripartire, prendendo una boccata d'aria fresca dal mercato europeo e statunitense che sortirà gli effetti peggiori, vivendo di fatto quello che la Cina ha passato due mesi fa. 

Il gruppo Kering, l'agglomerato del lusso che possiede tra gli altri Gucci, Saint Laurent, Balenciaga e Bottega Veneta,  stima un calo del -14% nelle vendite nel primo trimestre del 2020. Il gruppo che lo scorso hanno ha fatturato $17 miliardi di dollari ha dichiarato che si aspetta perdite simili anche nel secondo trimestre dell'anno, soprattutto perché ancora non si intravede una soluzione a questa pandemia a livello globale, anche se si registrano segnali incoraggianti e un timido ritorno agli acquisti in Cina. 

Sebbene gli acquisti siano cresciuti del 2,7% in modo costante per tutto il 2019, anche il gruppo Prada si aspetta un rallentamento in questi primi mesi del 2020, senza fornire però ulteriori indicazioni di stima per i prossimi mesi. 

 

SPORTSWEAR

Discorso a parte meritano i brand di sportswear, in particolare i due giganti Nike e adidas, che soprattutto nel caso dello Swoosh riflettono perfettamente l’evoluzione nelle abitudini dello shopping dei consumatori in questo momento di quarantena. Ma non solo: oltre a rappresentare un mercato per loro fondamentale e strategico, la Cina è per entrambi il principale paese di produzione, ed è quindi inevitabile che la temporanea chiusura delle fabbriche cinesi abbia sortito effetti ben tangibili su tutta la produzione dei brand. 

Con gli store chiusi in tutta Europa e negli Stati Uniti, l’interruzione delle catene di distribuzione, la sospensione della stagione NBA e il rinvio delle Olimpiadi di Tokyo 2020, Nike potrebbe perdere fino a 3 miliardi e mezzo di dollari. Si parla di un calo delle vendite globali del 21% e del 16% nel valore delle azioni. A contrapporsi a questi numeri ci sono però i dati degli acquisti online, aumentati di oltre il 30% sul territorio cinese. Più in generale le vendite online sono aumentate del 36% nel trimestre che si è concluso lo scorso 29 febbraio. Nike ha dichiarato che l’80% dei suoi store in Cina è aperto e operativo e che quindi da quella regione si aspetta vendite in linea con le stime annuali.

Dopo aver chiuso il 2019 al suo massimo storico, in seguito alla diffusione del COVID-19, adidas si è trovata costretta ad annullare tutte le spedizioni all'ingrosso e a dichiarare di aver pianificato di eliminare l'inventario in eccesso per il resto del 2020. Mentre la maggior parte delle fabbriche in Cina sono tornate a funzionare, la sua catena di distribuzione ha subìto interruzioni, senza influire particolarmente sul bilancio generale della società. adidas, così come PUMA, realizza quasi un terzo delle sue vendite in Asia, e nonostante molte delle sue fabbriche siano tornate operative e la produzione stia lentamente ripartendo, PUMA ha ammesso che non si aspettava un calo così drastico delle vendite nei mercati di Cina, Singapore, Giappone e Corea del Sud. 

Al di là di stime stagionali e profitti trimestrali, resta da capire se questo periodo di quarantena cambierà il modo di fare shopping dei consumatori anche quando l'acquisto online non sarà più l'unica opzione possibile. Negli Stati Uniti gli acquisti online ad esempio rappresentano un terzo di tutti gli acquisti di abbigliamento, e il 12% degli acquisti luxury avviene online. Ci sono brand che in questo momento non solo hanno chiuso tutti gli store fisici, ma anche quelli online, come nel caso di Patagonia.
Visti i risultati dello shopping online da quarantena - basti pensare al caso Nike - è chiaro che i brand, di qualsiasi livello e settore, continueranno a investire sulla digitalizzazione degli acquisti, non solo per raggiungere un ulteriore aumento delle vendite, ma anche per andare a creare una sorta di fondo, di assicurazione, nel caso in cui una situazione del genere dovesse verificarsi nuovamente. 

Il triste titolo di vincitore in questa situazione drammatica lo porterà a casa Amazon, probabilmente la piattaforma di e-commerce che più sta guadagnando in questi tempi di quarantena, tanto da doversi mettere alla ricerca di 10mila nuovi dipendenti, visti il numero di ordini e il ritmo con cui arrivano. Seguono a stretto giro, con fatturati in netta crescita, le piattaforme di streaming come Netflix, Amazon Prime Video e Disney+, app di video conferencing come Zoom e Skype e i corrieri e i vari servizi di delivery.